Lockheed, giudici militanti di Raniero La Valle

Lockheed, giudici militanti L'AMBIGUITÀ DEL PARLAMENTO-TRIBUNALE Lockheed, giudici militanti Pino all'ultima mezz'ora del lungo dibattito sul caso Lockheed, il Parlamento ha vissuto nell'ambiguità della sua doppia funzione, giurisdizionale e politica, e l'aula di Montecitorio appariva volta a volta come un'aula in cui eccezionalmente si esercitava il rito della giustizia, o come un'aula in cui, come sempre, si ritualizzava lo scontro per il potere. Per questa ambivalenza, che è durata fino a quando Moro ha deciso di fare del voto un fatto essenzialmente politico, il risultato era rimasto incerto per molti giorni, perché la percezione della verità processuale non necessariamente coincideva con la collocazione politica, e per di più questo Parlamento pullula di liberi pensatori non astretti a disciplina di partito, senatori a vita, membri del gruppo misto, indipendenti e simili. fi momento di verità Per ricondurre la possibile varietà dei comportamenti ad una sicura univocità di scelta, occorreva un fattore di drammatizzazione fortemente aggregante, che è stato per l'appunto offerto dal leader de¬ mocristiano, che contro ogni distrazione di chi volesse estrapolare il giudizio sulle persone dal suo significato politico, ha ricordato che il personale è politico, e che se in ogni giudice si dissimula il militante, quei 950 giudici erano lì proprio perché militanti. Ma appunto per questo il discorso di Moro, mentre inviava gli imputati alla Corte, ha rappresentato il momento di verità di tutto il « processo ». E la verità consiste nel fatto che nel nostro sistema il giudice di ministri ed ex ministri non è un « giudice naturale », ma un giudice speciale, che è la Corte Costituzionale integrata; che la fase parlamentare non è uno dei gradi o degli stadi del procedimento, ma è una condizione politica di procedibilità del giudizio penale; e che questa condizione di procedibilità è stata architettata dal costituente e dal legislatore ordinario in modo tale che possa scattare non in costanza di un regime o di una maggioranza, ma al trapasso di un regime e all'avvicendarsi di una maggioranza (perciò non va alla Corte Trabucchi, ma ci vanno Gui e Tanassi); ed è pertanto un meccanismo che tenta di mantenere dentro le istituzioni, e a un livello minimo di violenza, uno scontro che potrebbe essere ben altrimenti violento. Tutto questo era del resto già decifrabile prima del discorso di Moro. Come sarebbe stato possibile assimilare l'assemblea di Montecitorio a un collegio di giudici? Già Ingrao aveva avvertito che non ci si trovava in fase giurisdizionale, ma politica, tanto è vero che non sarebbero state proponibili in quella sede eccezioni di costituzionalità, né potevano introdursi nell'aula « estranei », fossero pure avvocati o altri imputati. Ma soprattutto si verificava l'inapplicabilità, a quel mo! mento parlamentare, delle norme del codice di procedura penale, che secondo la legge sui giudizi d'accusa avrebbero dovuto essere invece le norme di base. C'è ad esempio un articolo del codice che prevede che un j giudice possa esseTe « ricusa¬ to » dalle parti, se ha un interesse personale nel procedimento, se ha ragioni di inimicizia con l'imputato, o anche semplicemente « se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie ». In base a questi criteri Gui e Tanassi avrebbero potuto ricusare l'intero collegio, e appunto per questo un istituto pur cosi tipico del processo, sarebbe stato in questo caso impensabile. Ma c'è un altro istituto, non altrettanto impensabile, tanto è vero che è ammesso dalla legge per i membri della commissione inquirente e per i giudici della Corte Costituzionale, mentre non se ne fa parola per i parlamentari riuniti in seduta comune. E' l'istituto della « astensione », che non ha niente a che fare con l'astensione dal voto (che di fatto è un voto a favore degli inquisiti), ma è una ve¬ re e propria astensione dal giudicare. Ogni giudice ha, secondo il codice, non tanto il diritto quanto il dovere giuridico di astenersi dal prendere parte al giudizio, e quindi di sottrarsi al collegio, per gli stessi motivi per cui potrebbe essere ricusato, o quando esistano « gravi ragioni di convenienza »; e, per queste ultime, lo stesso dovere ha anche il pubblico ministero. Applicato al Parlamento in seduta comune, non essendo i parlamentari sostituibili (nemmeno gli inquisiti), questo istituto porterebbe all'abbassamento del « quorum » necessario per la messa in stato d'accusa, e al limite i porterebbe all'estinzione stes-,sa del collegio giudicante. Dunque, giustamente, non è applicabile; ma questo dice a qual punto sia improprio identificare il Parlamento con un tribunale. Ma al di là della procedu-ìrà, più ancora vale la que-1stione di sostanza. L'imputa- zione formulata dall'Inqui-. rente contro Gui e Tanassi, era quella di aver violato ! l'art. 319 del codice penale!perché, come pubblici ufflcia- li, avevano compiuto atti « in contrasto con le esigenze dell'amministrazione » (l'acquisto degli Hercules), per ricavarne un utile che l'accusa non dice fosse a beneficio proprio, lasciando intendere che potesse essere a beneficio del partito. ] L'utile del potere Ora, che dei ministri compiano atti in contrasto con le esigenze dell'amministrazione, cioè contro l'interesse pubblico, è ferma convinzione di ogni opposizione, che per l'appunto in nome degli interessi del Paese propone diverse o alternative soluzioni di governo. Ed è convinzione altrettanto ferma (e non solo dell'opposizione) che chi governa, anche se non disdegna l'utile collettivo, persegue fortemente l'utile, se non di se stesso, della propria parte; utile che non è necessariamente il denaro della Lockheed o quello dei petrolieri, ma è la conferma o il consolidamento del proprio potere, del proprio elettorato o delle proprie clientele, (ed è inutile esemplificare con una storia a tutti ben nota). Ciò spiega perché, quando dal conflitto politico si passa alla sede penale, la stessa descrizione di atti di governo può diventare un elenco di capi di imputazione. Ma ciò dice anche quale può essere l'unica linea di difesa possibile, vale a dire la dimostrazione che quel tale inquisito, benché ministro e uomo di partito, in quel dato atto di governo non ha fatto nulla che fosse contro l'interesse pubblico e secondo l'interesse proprio o del partito. E i l'esercizio fortemente asceti ,co cne s* richiede a dei par lamentali in veste di accusatori è di riuscire a costringere l'estrema libertà del giudizio politico nelle regole puntuali e restrittive del giudizio penale. Ma questa asce- ì?* si ™hiede <*»<*e ,al par1tlt0 cul appartiene l'inquisìappartiene l'inquisito, a cui devono bastare le Duone ragioni dell'imputato . , l^JggE&E? JL%? ° ! peLdim°?*wrrfe^e Pf^16;,,,. ! Ciò e assai difficile nel mas- o simo organo politico del Paese, che è il Parlamento in seduta comune. E infatti non è avvenuto. Addirittura nel discorso di Moro molti hanno avvertito un rovesciamento nella difesa di Gui: non perché innocente, ma innocente perché democristiano e perché ministro. Con ciò ve] niva addossato su Gui un I trentennio di gestione del j potere, nel bene e nel male, 1 nel governo e nelle amministrazioni locali, e per tutti e singoli gli atti di questa gestione veniva richiesta una solenne sanzione, politica e morale, dell'intero Parlamento. A quel punto diventava paradossalmente più facile il proscioglimento di Tanassi, per difetto di difesa. Tutto questo, se ha rivelato la « verità » del processo, dimostra peraltro che il procedimento di accusa, nella sua fase parlamentare, deve essere liberato anche dalle false apparenze giurisdizionali, e restituito alla chiarezza della sua inevitabile funzione politica. Raniero La Valle