Il primo vagito d'Europa di Alfredo Venturi

Il primo vagito d'Europa VENTANNI FA NASCEVANO A ROMA MEC ED EURATOM Il primo vagito d'Europa Non si realizzava il sogno dei federalisti; ma si muoveva un passo avanti verso un continente non più disunito dai nazionalismi Un pomerìggio di pioggia, quello romano del 25 marzo di vent'anni fa. Sugli ombrelli che una piccola folla inalbera nella piazza del Campidoglio, cadono oltre alla pioggia ì rintocchi della Patarina, il campanone delle grandi occasioni. Dentro, nel salone degli Orazi e Curiazi al primo piano del palazzo dei Conservatori, sotto lo sguardo severo e il gesto benedicente di due papi, Innocenzo X e Urbano Vili, attorno ad un lungo tavolo di noce sta nascendo l'Europa. Ma forse l'espressione, come tutte le espressioni semplificatrici, è insieme falsa e retorica. L'Europa, non esiste forse da sempre? E se non esistesse, sarebbe forse sufficiente per farla nascere una raccolta di firme sotto due trattati e alcuni protocolli, che istituiscono una Comunità economica e un'Agenzia per il coordinamento delle politiche nucleari? E se tutto questo sembra sufficiente, allora il vero atto di nascita non è semmai una cerimonia analoga, quella che a Parigi, il 18 aprile del 1951, vide i sei ministri degli stessi Paesi firmare il trattato che istituiva la Comunità europea del carbone e dell'acciaio? Comunque sia, il Mec e l'Euratom nascono con solenne apparato. Ecco i discorsi dei plenipotenziari, hanno preso la parola dopo che il sindaco di Roma, Tupini, li ha rassicurati sull'adeguatezza del luogo, definendo il Campidoglio «dopo il Golgota... il colle più sacro della civiltà». Ecco dal colle sacro, ancorché inzuppato di pioggia, diffondersi le parole | dei «Sei» per radio e televisione. C'è il realismo di Gaetano Martino, ministro degli Esteri italiano, che siede accanto al cereo presidente Segni: «I nostri problemi oggi non finiscono, ma cominciano». C'è il rimpianto di Konrad Adenauer: lamenta che «è ormai in vista l'unificazione economica della piccola Europa, ma quella della Germania appare ancor lontana». Parla Paul-Henri Spaak, ministro belga degli Esteri e grande animatore dell'ideale europeo: «Il ricordo delle passate sventure ci ha dato il coraggio di dimenticare le vecchie dispute». Poi tocca a Christian Pineau, capo deUa diplomazia francese, che auspica un sollecito ingresso nella Comunità dell'Inghilterra, «senza la cui partecipazione l'Europa sarebbe incompleta». E Joseph Luns, ministro olandese degli Esteri, compie un gesto netto spirito dei tempi nuovi che si vogliono consacrare con queste firme: rinuncia a parlare nella sua lingua e dice in ottimo francese che ciò che occorre è un'Europa «unita, prospera e forte come lo era l'Europa sotto la Roma imperiale dei Cesari». Un richiamo, quello di Luns, forse un tantino azzardato sotto il profilo politico: ma l'ambiente impone le sue suggestioni. Dalle finestre del Campidoglio non pendono forse i drappi con le aquile romane? E poi, il superamento del nazionalismo, implicito nei trattati che si vanno a firmare, non toglie forse a queste aquile gli artigli che soltanto pochi anni fa avevano miserevolmente risfoderato? Si firma, dunque: i ponderosi trattati passano da un ministro all'altro, poi toccherà ai protocolli, alle convenzioni aggiuntive, per un totale di duecento autorevoli tratti di penna. E' tutto: adesso si brinda, nei saloni del Campidoglio, fra valletti in costume rinascimentale e cerimonieri in feluca e spadino. Fuori, sulla piazza michelangiolesca battuta dalla pioggia, quelli della squadra politica sorprendono un gruppo di persone: diffondevano manifestini in cui si dice che non soltanto qui non si unifica l'Europa, ma al contrario se ne approfondiscono le divisioni. Non tutti sono d'accordo, infatti, nel valutare l'avvenimento che l'indomani i giornali europei saluteranno con grandi titoli. In Italia, i comunisti bollano ciò che nasce oggi come «l'Europa dei grandi monopoli». / socialisti stanno faticosamente adeguandosi ai tempi: è di poche settimane il trentaduesimo congresso, che ha visto prevalere a Venezia la linea Nenni, e l'estate prossima il partito voterà a favore della ratifica dell'Euratom, si asterrà benevolmente sul Mercato Comune. Per quanto distratta dal processo Montesi, che si celebra a Venezia con grande spiegamento di cronisti, l'opinione pubblica italiana segue con un certo interesse la vicenda europea. Forse è un po' infastidita dalle declamazioni retoriche tipo «una nuova era», ma certamente in questo dopoguerra c'è una consapevolezza culturale sempre più diffusa che guarda al di là delle frontiere; e se il fascismo un risultato positivo l'ha avuto, è stato proprio questo, di aver sottoposto il Paese ad una vaccinazione di massa contro il nazionalismo. Eppure, quanta fatica per giungere alla firma dei trattati. Soltanto poche settimane prima della cerimonia capitolina, pareva che tutto dovesse andare a monte. Lo ricorda Vittorio Badini Confalonieri, convinto europeista da sempre, e nei cruciali anni successivi al '54 sottosegretario agli Esteri, il che gli conferì un ruolo di primo piano nei negoziati che portarono alla nascita del Mercato Comune. Badini Confalonieri ricorda una delle ultime riunioni dei sei ministri degli Esteri: siamo a Parigi nel tardo autunno del '56, i trattati sono ormai quasi pronti, dopo le decine d'incontri brussellesi nel Béguinage di Val Duchesse, un vecchio convento alle porte della capitale belga. Ma premono vitali dettagli, e la trattativa è bloccata su uno scontro d'interessi contrapposti fra Germania e Francia. Il ministro tedesco, Von Brentano, profondamente europeista, ha ai lati due colleghi di governo molto meno coinvolti nell'idea: il ministro dell'Economia Erhard, il ministro dell'Energìa atomica Strauss. Su varie questioni, ma soprattutto su quella relativa al sistema delle allocations familiales, la struttura previdenziale francese che appesantisce ì costi industriali mentre dall'altra parte del Reno l'incidenza degli «oneri sociali» è molto inferiore, il che induce la Francia a chiedere compensazioni, Erhard e Strauss non transigono. «Per evitare la rottura — ri- corda Badini Confalonieri — Spaak, che presiedeva alla riunione, sospese la seduta: poi, nel pomeriggio, dopo che Pineau aveva telefonato per avere istruzioni al presidente Guy Mollet, e dopo che nemmeno le nuove concessioni francesi avevano smosso l'intransigenza tedesca, Spaak si produsse in una scena madre, ponendo i contendenti di fronte alla loro responsabilità verso l'Europa. Fu Bech, il vecchio ministro lussemburghese, a rasserenare l'atmosfera con un bel giro di whisky, dopo il quale, in qualche modo, la trattativa fu ricucita». Ma non è tutto. C'era di mezzo, ancora, la questione dei territori oltremare della Francia. E' incredibile, almeno con il senno di oggi, che nel '56-57, cioè a tre o quattro anni dal '60 e in piena crisi del colonialismo, fosse un problema di colonie a ritardare l'accordo per il Mercato Comune Europeo. I francesi, dunque, volevano aiuti per i loro territori oltremare, ed è chiaro che i tedeschi dovevano accollarsene l'onere. Con realismo «Nel febbraio del '57 — dice Badini Confalonieri — questo problema era lì, sul tavolo della riunione dei sei presidenti del consiglio all'Hotel Matignon di Parigi. Grande attesa per il discorso di Adenauer, toccava infatti a lui togliere di mezzo l'ultimo ostacolo prima del sospirato accordo defifinitivo. Ecco- il cancelliere che prende la parola, in tedesco, ed esordisce lentamente: "Chissà che cosa direbbero, i posteri, se ci vedessero discutere in questo modo, di queste cose". Pian piano, l'atmosfera si sgela, si arriva faticosamente all'intesa, un mese e mezzo più tardi si andrà alle firme in Campidoglio». I diplomatici che lavoravano per questo accordo, e l'opinione pubblica che seguiva il complesso negoziato seguito al naufragio del proposto esercito europeo, e rilanciato dalle conferenze di Messina e di Venezia fra il '55 e il '56, erano alle prese con un modo relativamente nuovo di affrontare il pro¬ blema. Era il cosiddetto «metodo funzionale», che proprio il fallimento della Ced aveva suggerito. Poiché il voto del Parlamento francese aveva bocciato, con la Comunità di Difesa, l'idea di un'integrazione profonda, si puntò su integrazioni settoriali che riprendessero il positivo precedente della Ceca. Fu Jean Monnet, l'europeista francese che era stato appunto a capo della Ceca, ad avviare questa nuova fase. Essa doveva basarsi sull'accordo dei governi, su una trattativa multilaterale dei «Sei» che già erano uniti nella Comunità carbosiderurgica. Contro quegli obbiettivi parziali, e soprattutto contro il metodo del negoziato intergovernativo, stava il grande sogno dei federalisti. Volevano ben altro che un'unione doganale e un'integrazione economica. Volevano l'unità politica, che cancellasse dal corpo antico del continente quelle frontiere che Georges Bidault aveva così bene definito «le cicatrici dell'Europa». Che cosa è mai un mercato comune, quel che ci vuole sono gli Stati Uniti d'Europa. E ancora: che cosa è mai la trattativa fra i governi, quando esiste un popolo europeo che, solo, è legittimato ad avviare con l'elezione di una Costituente il processo unitario. L'esponente di maggiore spicco dell'opposizione italiana al metodo funzionale era Altiero Spinelli. Antifascista, confinato politico, nel giugno del '41 Spinelli aveva posto la sua firma accanto a quella di Ernesto Rossi sotto il manifesto di Ventatene. Con questo documento, non a caso opera di un gruppo di confinati, l'Italia dell'antifascismo aveva dato il suo contributo alla nascita dell'idea federalista. Vi si parlava, in un'Europa lacerata dalla guerra, della necessità di unificare gli Stati del continente. Poco più dì due anni dopo, a Milano, Spinelli e gli altri fondarono nella clandestinità il Movimento federalista europeo, e cominciarono a mettersi in contatto con quanti, oltre frontiera, la pensassero allo stesso modo. «Dovevano bene esistere da qualche parte — ricorda Spinelli alludendo ai federalisti stranieri — poiché il destino e i problemi nei nostri Paesi erano diventati ovunque identici». Così s'iniziò l'attività di un gruppo di entusiasti mobilitatori di opinione, al quale il naufragio della Ced sembrò togliere ogni speranza. «Certo — dice Spinelli — la nostra idea d'Europa era concepita in termini ben più vasti di quelli accolti nei trattati di Roma: ma la prospettiva era pur sempre quella dell'unificazione europea. Noi allora eravamo contrari, perché appunto si trattava di una prospettiva e non di un programma immediato». Vista oggi, la cosa appare diversa: «Ciò che conta — dice Spinelli — non è quel tanto d'integrazione economica che si è realizzato, ciò che conta è il fatto che l'idea dell'unità europea si è avanzata in questi anni ben oltre il senso di quelle realizzazioni». Ricorda le opposizioni di allora: i comunisti contrari, che ora non lo sono più (lo stesso Spinelli, come è noto. è oggi deputato indipendente eletto nelle liste del pei, e il partito lo candiderà probabilmente al Parlamento europeo); i socialisti incerti, che ora sono europeisti convinti; i socialdemocratici tedeschi, che hanno conosciuto un'evoluzione analoga; e i sei Paesi che sono diventati nove, mentre altri bussano alla porta dell'Europa. A voto diretto «La prospettiva unitaria europea — dice Spinelli — è la sola alternativa a quella visione imperiale americana che con Kissinger arrivò al governo di Washington: al confronto il superamento delle dogane è un fatto irrilevante, ciò che conta è il discorso della nostra identità di europei nel mondo, nel mondo bipolare e quindi doppiamente imperiale di oggi». Spinelli ravvisa uno dei meriti «europeistici» dei trattati di Roma proprio nei fallimenti dell'esperienza comunitaria. «La Comunità era una debole struttura economica gravida di forti potenzialità politiche: non ha saputo risolvere certi problemi, ed ecco i "prìncipi" europei che per non cacciarsi in un vicolo cieco convocano gli Stati generali». Gli Stati generali, è ovvio, sono il Parlamento continentale che dovrebbe eleggersi verso la metà del '78. Dovrebbe, perché ancora grosse nubi si addensano sui destini europei, e ancora una volta la perturbazione viene dalla Francia, dove i comunisti e gran parte dei gollisti recalcitrano di fronte ad una diavoleria così «soprannazionale» come il Parlamento. «Il Parlamento europeo — dice Spinelli — porterà per la prima volta il principio della legittimazione democratica all'interno delle istituzioni comunitarie, ben diversamente dall'attuale assemblea (composta di delegati dei singoli Parlamenti nazionali, n.d.r.J: e la storia insegna che un Parlamento così legittimato tende oggettivamente ad affermare i propri poteri». E' chiaro che Spinelli sì attende, dalla futura assemblea eletta direttamente dai cittadini europei, l'apertura di una nuova fase costituente che avvìi il superamento dell'attuale Comunità unanimistica, del «mostro dalle nove teste». E' dunque la prospettiva dell'elezione del Parlamento europeo, attorno alla quale già da qualche tempo sì agitano i partiti, a riproporre insieme il bilancio di vent'anni di Mercato comune e il mai sopito sogno federalista. Più ancora della ricorrenza delle firme del '57, della cerimonia che consacrò sul colle del Campidoglio il trionfo dei pragmatici, dei funzionalisti «monnetiani», di un'Europa che non poteva e non voleva ancora chiamarsi «Stati Uniti» e ripiegava così sul modesto obbiettivo doganale. Ma non senza includere, nel preambolo al trattato Cee, un prezioso accenno alle «fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli europei». E' vero che i federalisti storcono il naso di fronte i questo plurale: non si tratta, dicono, di unire dei popoli, ma di riconoscere politicamente l'unità storica e culturale del «popolo europeo». Un'utopia, un sogno: o la chiave del nostro futuro? Alfredo Venturi il ^^^^^^ Paul-Henri Spaak Jean Monnet