Eurocomunismo come terza via di Aldo Rizzo

Eurocomunismo come terza via Eurocomunismo come terza via Il pei — è un dato macroscopico — è molto cambiato rispetto alla sua origine storica e ideologica; la sua proposta politica ha ormai ben poco a che vedere con la lontana radice leninista e con quel modello sovietico che gli stessi comunisti italiani hanno esaltato per mezzo secolo. E tuttavia, pur così cambiato, il pei pretende di portarsi dietro tutta la sua storia, senza scrollarsi di dosso neppure le parti più buie, più inquinanti. « Rinnovamento nella continuità ». Naturalmente non è facile a nessuno, persona o partito, liberarsi della propria storia, o rifiutarla, e non è neppure possibile. Ma riesaminarla criticamente, sì. S'intuisce un altro argomento: una grande forza politica, giunta a rappresentare il 34 per cento del voto nazionale, non può abbandonarsi a un'autoflagellazione senza perdere credibilità davanti alle masse, senza dare una prova di debolezza, o qualcosa che può essere scambiato per tale. Ma non si tratta di autoflagellarsi, bensì di precisare meglio le ragioni di certi cambiamenti. Se il pei chiede, gramscianamente, il consenso di forze e gruppi alleati ed affini e, andando oltre Gramsci, anche il consenso di quelli che erano, o erano considerati, gli avversari di classe, per dar vita a un progetto comune di rinnovamento nazionale e sociale,-è pur necessario fornire a tutti costoro delle spiegazioni. Poi il pei, nel momento in cui invita tutte le forze poli tiche, sociali e intellettuali a un grande dibattito nazionale sui lineamenti della società futura, è un partito che con tinua a non dibattere al suo interno, se non nei modi in sufficienti e oscuri all'esterno del « centralismo democratico ». Senza dubbio nel partito di Berlinguer ne vigono le forme meno chiuse, e persino si comincia a chiamarlo con un altro nome, che poi non è tanto diverso: « democrazia unitaria e organica ». Ma restano intatti il divieto di organizzare il dissenso, chiamato «frazionismo», il rifiuto di un'opposizione interna e, in ultima analisi, un sistema fatto di cooptazioni e di decisioni dall'alto. Dietro il centralismo c'è di nuovo un'esigenza tattica, quella di offrire l'immagine di un partito omogeneo e compatto, non lacerato da contrasti interni, come altri partiti di sinistra o di centro. Ma c'è qualcosa di più, c'è un modo particolare di concepire e di « sentire » la democrazia. Ci si chiede se non sia questo stesso tipo di democrazia che il pei propone alla società nazionale, quando fissa al pluralismo l'obiettivo di arrivare comunque a una « ricomposizione unitaria della società », evitando i rischi della « frantumazione » e della «disgregazione corporativa ». Si è visto, nella polemica sul pluralismo aperta da Bobbio, come fra il modello conflittuale o competitivo della tradizione anglosassone e liberaldemocratica e quello, a cui non è estraneo lo stesso pensiero cristiano-sociale, del pluralismo organico o « finalizzato », il pei non esitasse nel pronunciarsi per il secondo. E a chi faceva presenti i pericoli d'integralismo o di vero e proprio autoritarismo insiti nel modello organico, è capitato di sentirsi rispondere che non di ciò si tratta, ma dell'* arte del marxismo ». Tuttavia si è ammessa « l'esigenza di combinare in qualche modo » una libertà reale con « uno sforzo di direzione e di ricomposizione unitaria della socie tà italiana ». Cioè si è ammesso che sono due cose diverse. Come conciliare un pluralismo effettivo col modello di una società « organica », cioè come conciliare il pluralismo con l'egemonia, è dunque problema ideologico e politico di fronte al quale si trova l'evoluzione del pei. Per tedioso che sia diventato questo problema, per il troppo parlarne, non è perciò meno reale Si può pensare che il pei abbia in mente in definitiva, per l'Italia, una sorta di centralismo democratico in gran de, però corretto: cioè un cen tralismo democratico che intanto funzioni veramente, poi che sia rettificato rispetto al modello classico, nel senso di consentire, anche dopo la formazione della volontà collettiva, un dissenso istituzionalizzato. Non è più centralismo? Forse. Però resta dubbio, nonostante molte assicurazioni, il fatto che al dissenso si dia la possibilità di crescere e diventare a sua volta maggioranza e quindi volontà collettiva, se non, almeno, nell'ambito di un nuovo quadro socio-economico e istituzionale, cioè di un nuo¬ vsvlrccmusmscdsmsrsfncapEtallrdirdtndetsddcdlsf vo rapporto struttura-sovrastruttura. Del resto si è affermato più volte, e da un'ottica marxista legittimamente, che ogni pluralismo è espressione di una certa realtà socio-economica, e che se il pluralismo liberaldemocratico è stato espressione di una egemonia borghese, quello socialista lo sarebbe di un'egemonia operaia. Ma il pluralismo « borghese » è tale da consentire (lo sta consentendo) alle forze contrarie al sistema di arrivare al potere, mentre non si hanno garanzie sufficienti che lo stesso avverrebbe col pluralismo « socialista ». Se poi queste garanzie fossero realmente date, si rinuncerebbe di fatto alla società unificata, si tornerebbe alla società conflittuale o competitiva esclusa in partenza. E' un nodo totalmente irrisolto, come gli stessi comunisti ammettono, quando invitano le altre forze a percorrere con loro « vie inesplorate ». Tutti questi problemi non rientrano in nessun manuale di azione comunista e neppure in alcuno dei testi sacri: la ricerca ideologica e politica del pei è qualcosa di completamente nuovo. Ma il nuovo non sembra riuscire ad avere del tutto ragione del vecchio, e viceversa. Questo è evidente anche nel confronto (decisivo, emblematico) col cosiddetto « socialismo reale », cioè dei fatti e non delle parole, che sarebbe quello dei Paesi dell'Est e in primo luogo dell'Unione Sovietica (secondo, s'intende, i suoi apologeti ufficiali). Tutta la storia del pei ha avuto nell'Urss un termine di raffronto, un punto di riferimento cruciale. La svolta ideo logica e politica non può non riflettersi anche e soprattutto in questo rapporto. E infatti vi si riflette. Sempre più il pei prende le distanze da ciò che accade nell'antica madrepatria del socialismo, che anzi non è più considerata tale, se madrepatria vuol dire mo dello. Ogni violazione dei diritti civili e delle libertà fondamentali, ogni persecuzione di intellettuali dissidenti, sono puntualmente rilevate e condannate. Non solo, ma si comin eia a risalire dagli effetti alle cause, o a certe cause. E tut tavia all'ovvia domanda perché, a questo punto, non si prenda atto definitivamente che l'Urss e i suoi alleati-satelliti non sono Paesi socialisti, ma burocratici o di capitalismo di Stato o altro, sottintendendo l'opportunità di recidere ogni particolare rapporto di solidarietà, si risponde con argomenti in parte giu¬ stificativi di quei Paesi e di quei regimi. In realtà il pei non è disposto o non si sente pronto a rompere né con Lenin, né con Gramsci, né con le esperienze storiche dell'Est (rompere nel senso di ammettere un decisivo salto di qualità, ideologico e politico). Critica tutto, prende le distanze da tutto, giudica i modelli dell'Est insufficienti e per certi versi inaccettabili, ma sempre nell'ambito di una linea evolutiva e senza strappi, nell'ambito di un discorso che ha come obiettivo massimo, come preoccupazione massima, quella di evitare lo slittamento nella socialdemocrazia. Sostanzialmente, e con molta prudenza tattica, il pei guarda a una terza via, tra quella social-riformista e quella del « socialismo reale » dell'Est. Chi in Occidente misura la sua evoluzione nel senso dell'avvicinamento e dell'approdo finale al modello socialista eurooccidentale o addirittura liberaldemocratico, non può non incorrere in continue delusioni. L'evoluzione del pei va valutata per quello che è, un distacco crescente dal modello leninista originario: con ciò stesso, è chiaro, si accorciano le distanze dalle socialdemocrazie storiche, ma sempre puntando verso qualcosa di nuovo e d'indefinito. A chi osserva che tra l'esperienza sovietica e sovietizzante, da una parte, e quella socialdemocratica o riformista dall'altra, « tertium non datur », i comunisti rispondono: « Tertium datur ». Il problema è definire la natura e la qualità di questo « tertium »: e qui torna il nodo egemoniapluralismo, società organica-alternanza, democrazia direttademocrazia rappresentativa; ma è attorno a questo nodo, e non ad altre cose e ad altri problemi, che si esercita la ricerca del pei. Naturalmente una situazione come questa, a cavallo di cose diverse, può precipitare in un senso o in un altro, in un riflusso leninista puro come in una riscoperta piena della socialdemocrazia. Tuttavia il partito di Berlinguer (il modello che esso propone di socialismo in Occidente) ha di per sé altre finalità, e soprattutto quella di « inventare » una società nuova, diversa da ogni altra esperienza storica: d'inventarla in uno spazio ideologico e politico non coperto interamente da nessuno degli ideologi socialisti del passato, della Seconda come della Terza Internazionale. E' una scommessa pericolosa? E' una scommessa. Aldo Rizzo

Persone citate: Berlinguer, Bobbio, Gramsci, Lenin

Luoghi citati: Italia, Unione Sovietica, Urss