Venezia del dissenso di Francesco Rosso

Venezia del dissenso DOPO LE POLEMICHE SULLA BIENNALE Venezia del dissenso Il "veto" dell'ambasciatore sovietico ha riportato la città all'attenzione internazionale - Ha rimesso in movimento anche vecchi problemi, come la separazione da Mestre - Bruno Visentini alla Fondazione Cini (Dal nostro inviato speciale) Venezia, marzo. Il new look di Venezia sta per decollare, ci sono tutte le premesse perché all'annoso immobilismo che ha ridotto la città lagunare in un mezzo cimitero, subentri un dinamismo che può ridare nuovo vigore all'ormai decrepita città dei dogi. Gli sviluppi polemici, gli scontri diplomatici provocati dalla preventivata Biennale sul dissenso culturale nell'Est europeo, hanno dato dimensione internazionale ad un avvenimento che si era arenato su posizioni politiche unilaterali, una manifestazione cioè ad una sola direzione. Tutto il mondo ha parlato della Biennale, e quindi di Venezia, anche per merito dell'ambasciatore sovietico, che ha agito come tutti sappiamo. In un certo modo, il signor Ryjov ha tatto pubblicità gratuita a Venezia, ma la Biennale è argomento troppo serio per poter essere sviluppato in poche battute, e lo fa Carlo Ripa di Meana, suo presidente, che ha messo in moto una serie di reazioni di cui non è tacile prevedere gli sviluppi. Immaginiamo che la Bien¬ nale '77 non si faccia; i primi a lagnarsene saranno i veneziani, che dal 1968, anno delle prime furenti contestazioni alle Biennali definite borghesi, hanno mugugnato non poco per quelle successive, che attiravano in laguna soltanto hippies forniti di cartocci e sacchi a pelo. L'anno scorso c'è stata l'esplosione, un milione di visitatori, e non solo di zazzeruti hippies; la nuova Biennale incominciava a marciare anche per alberghi, ristoranti, bar, negozi. Si ritornava al buon tempo antico dell'estate prolungata fino alle prime nebbie ottobrine. Ed ora ecco l'alt sovietico, con la prospettiva che quest'anno non si faccia nulla. Di chi la colpa? Ma dei comunisti, s'intende, non per un'opposizione programmatica alla Biennale del dissenso, ma per l'indirizzo che hanno dato a queste manifestazioni anche in passato. «Vogliono una Biennale politica, lo ha ancora affermato recentemente Giulio Carlo Argon — dice accalorandosi Gianni Carandente, soprintendente ai monumenti del Veneto; — se la tengano, e subiscano anche una Biennale sul dissenso in Russia e paesi satelliti». Il grosso ostacolo rimette in moto vecchie polemiche, per esempio quella sul decentramento. «Che senso ha — dice un amico che vuole l'anonimo — portare gli spettacoli teatrali, i concerti, gli spettacoli d'opera nei capannoni degli stabilimenti di Marghera; a parte l'umidità, per cui i cantanti e gli attori perdono la voce, gli strumenti musicali finiscono per scollarsi, non credo che gli operai della Finsider o della Montedison si interessino molto a spettacoli forse incomprensibili persino a coloro che li allestiscono. Inoltre, se proprio vogliono portare la Biennale anche a Mestre e Marghera, allora completiamo l'opera, facciamo venire gli operai a lavorare di tornio, di fresa e di lima sul palcoscenico della Fenice, per dimostrare come si fa agli intellettuali». Sono paradossi, d'accordo, ma mettono in evidenza che la Biennale è diventata un fatto mondiale e riapre anche un discorso che molti pensavano definitivamente concluso, l'autonomia, l'antagonismo fra Mestre e Venezia, la richiesta di separa- netta, senza comprodei due ipotizzati co- zione messi munì. Recentemente, è stato indetto un sondaggio d'opinione tanto a Mestre quanto a Venezia centro storico ed il risultato eccolo; l'ottanta per cento degli interrogati si è dichiarato favorevole alla separazione amministrativa delle due città, che hanno interessi contrastanti. Mestre era un sonnacchioso villaggio agricolo ancor dopo la prima guerra mondiale, e solo nel 1926 fu aggregata forzosamente a Venezia dal fascismo che, padrino il conte Volpi di Misurata, voleva dare alla ex Serenissima uno sviluppo industriale in terraferma. Ma nel secondo dopoguerra le posizioni si invertirono, Mestre e Marghera sopraffecero Venezia succhiandole ogni energia economica, portandole via la popolazione giovane, lasciandola come una conchiglia vuota sulla quale vomitano i loro gas mefitici, rovesciano in laguna gli scarichi delle loro industrie inquinanti. L'allarme suonò con la devastatrice acqua alta del novembre 1966, quando tutto il mondo si avvide che Venezia poteva sprofondare, oppure sbriciolarsi corrosa dagli acidi di Marghera. Si varò la legge speciale per la salvezza di Venezia, e non si è fatto nulla, o quasi. E forse è una fortuna che i partiti politici sì siano paralizzati a vicenda, almeno non hanno dato il colpo di grazia a Venezia coi progetti dissennati, i veti a questa o quella iniziativa. Oggi, con quei trecento miliardi si potrà fare molto meno di quanto si sarebbe potuto fare nel 1973, ma non è stato consumato l'irreparabile, e ciò è già un vantaggio per Venezia. Durante la di scussione in Parlamento sulla legge speciale, ebbe vasta risonanza il discorso pronunciato dall'on. Bruno Visentini, repubblicano, più tardi ministro delle Finanze. Visentini è di Treviso, ma si considera veneziano in assoluto e conosce bene i problemi di questa città. Fu facile profeta nel prevedere i guasti che avrebbe provocato la legge speciale se ad applicarla fossero intervenuti anche Provincia e Regione, che quasi sempre hanno interessi contrastantì con Venezia. E già allora chiese che le amministrazioni comunali di Mestre e Venezia diventassero autonome, tornassero cioè a prima della fusione fascista del 1926. Inoltre, egli prevedeva che i partiti si sarebbero paralizzati fra di loro e propose una soluzione che fece gridare allo scandalo. Non un doge, come si disse paradossalmente, ma un personaggio nuovo, libero da pastoie politiche, un manager che sapesse amministrare l'azienda Venezia. Tutto questo discorso per dire che Bruno Visentini, rimasto un po' fuori dalle polemiche lagunari, riapproda a Venezia, non come alta autorità, ma come presidente della Fondazione Cini. E' un avvenimento importante, perché Visentini operante a Venezia può provocare grossi sviluppi. Il suo nome ha risonanza internazionale, gode di grande prestigio ovunque e, fatalmente, la sua attività non sarà limitata solamente a imprimere ritmi nuovi e differenti all'istituzione culturale che incomincerà a presiedere da venerdì prossimo, senza che lo voglia sarà coinvolto in molti problemi veneziani, culturali e no. Egli può riportare la Fondazione Cini e Venezia in un circuito di interessi anche economici, nazionale ed internazionale, dietro dì lui potrebbero riapprodare in laguna quei centri direzionali e gli operatori economici che se ne sono andati allorché Venezia ha incominciato a impoverirsi dopo l'abnorme sviluppo di Mestre e Marghera. Visentini è ancora dell'opinione che Venezia deve avere una propria autonomia amministrativa, che la sua salvaguardia non debba avvenire soltanto sul risanamento delle case, ma più profondamente, specie nel tessuto della popolazione un po' troppo abbandonata alla convinzione che la città può ^Hvere soltanto dì turismo. In questo modo Venezia dioerrebbe sì un vuoto e morto museo, un destino che bisogna evitarle ad ogni costo. Bisognerà attendere che egli si insedi a San Giorgio Maggiore per conoscere le sue intenzioni. Ad ogni modo, il suo arrivo non può essere che benefico per Venezia, anche se egli incontrerà ostilità senza fine, specie in chi ha interessi elettoralistici. Con la nuova Biennale che nascerà dalla crisi attuale, questo arrivo potrebbe esse re una delle molle per dare l'avvio al new look, al nuo vo corso veneziano. Ne esiste un terzo, forse non così rilevante, ma nemmeno trascurabile, ed il protagonista questa volta è un palazzo-museo, una dimora sontuosa affacciata ad un campiello armonioso e quie- to. In questo palazzo approdò un giorno dalla Spagna Mariano Fortuny y Madrazo, di professione ricco e pittore. Gli piacque c lo comperò. Era l'anno 1879, un tempo in cui Venezia era ancora la meta dei grandi letterati e artisti viaggiatori. Una lapide dice ch'era un «genio multiforme improntato all'arte spagnola ed al suggestivo mistero d'oriente». Inventò le cupole Fortuny, quelle che danno l'illusione del cielo sui palcoscenici grazie a speciali congegni di illuminazione; dipingeva ritratti e paesaggi veneziani che esponeva un po' ovunque, da Londra a Parigi, a Barcellona, a Milano, a Torino. Inventò stampi speciali per tessuti, specie mussole e crespi leggerissimi. I suoi famosi stampati plissés, avaporosi come nuvole», vestirono le più celebri donne dell'epoca, Sarah Bemhardt, Eleonora Duse, Isadora Duncan. Era l'epoca folle della Venezia fra i due secoli, D'Annunzio scriveva II fuoco, Ezra Pound pubblicava qui le sue prime poesie A lume spento, Thomas Mann scriveva Morte a Venezia e F.T. Marinetti lanciava dalla torre dell'orologio il famoso manifesto che esordiva con Uccidiamo il chiaro di luna, ed esortava i veneziani a interrare tutti i canali, farne strade per le rombanti automobili. Il palazzo Fortuny, già dei Pesaro, lo ereditò la vedova Henriette, gli stampi per le stoffe la signora Elsie Lee, un'americana che continua l'attività di Fortuny alla Giùdecca e vende soprattutto in America. Il palazzo, un fantastico concentrato di bric à brac Liberty, fu lasciato dalla vedova di Fortuny al comune di Venezia nel 1956 e trasformato in museo, ora sotto le cure del direttore prof. Guido Perocco e in parte già restaurato dal soprintendente ai monumenti prof. Renato Padona. Le fastose sale che ricordano un po' la baraonda merceologica del dannunziano Vittoriale, ma con maggior autenticità, sono tutte al primo piano, il resto è disponibile, e siccome la vedova Fortuny aveva lasciato il palazzo al Comune con la clausola che vi fossero insediate attività culturali, nelle sale vuote si sono insediate due istituzioni internazionali, «Venezia isola degli studi» e la «Università internazionale dell'arte». Non sono istituzioni da classificare tra le tante iniziative che sono state prese per Venezia dopo il disastro del 1966; specie la «Università internazionale dell'arte», da quando la presiede Sandro Meccoli, è diventata un tatto importante nella vita culturale veneziana. «Intendiamo ricostituire la scuola libera, dice Meccoli, il laboratorio, ricollegarla meglio con la città e con il mondo». Vi si iscrivono studenti di ogni Paese, vi tengono seminari i più illustri studiosi oggi attivi in architettura, urbanistica, tecnica visuale, archeologia, museologia, scultura. Ed è questo davvero il terzo polo per il new look veneziano, un più profondo inserimento di Venezia nel tessuto culturale italiano e internazionale. Francesco Rosso