Il Quarto Stato di Marziano Bernardi

Il Quarto Stato RIVEDERE PELLIZZA DA VOLPEDO Il Quarto Stato Giuseppe Pellizza da Volpedo lavorò dieci anni all'esecuzione di quella che ben può essere chiamata una bandiera del Socialismo, la gran tela che, meditando sulle ultime pennellate, finalmente dopo tre altri titoli, egli battezzò Quarto Stato. Due anni dopo la comparsa in pubblico del quadro, alla Quadriennale del 1902 della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, avrebbe scritto al pittore Matteo Olivero: « Quarto Stato — che fu nella mia mente Fiumana prima, quindi II Cammino dei lavoratori — fu una delle mie primissime concezioni, fu il pensiero continuato di un decennio e non riescii a concretarlo che dopo aver evoluto la mia arte con molto, moltissimo lavoro e con altrettanto pensiero ». Ma una primissima concezione va ricercata anteriormente, in un paio di piccoli disegni a penna ed a matita databili entro il 1890 (Pellizza aveva allora ventidue anni) che rappresentano scene di sciopero operaio, non ancora contadino, e recano annotazioni come « operai faccie smunte magre pel troppo lavoro », « la bandiera è di una società di mutuo soccorso », « una donna col bambino in collo segue il marito scioperante », « il capo è uomo sui 35 fiero intelligente lavoratore, dovrà trattare coi signori incaricato dai suoi compagni. Altro guarda le sue forti braccia egli conta sulla sua forza». Siamo negli anni delle prime società operaie di mutuo soccorso, delle leghe contadine di Romagna e Lombardia, ed il giovane pittore, figlio di agricoltori abbastanza agiati che però lavorano la terra con le loro braccia, imbevuto di ideali umanitari (già ha scritto in un suo taccuino: « Il mio scopo è il bene dell'umanità»), fisso a un miraggio di maggior giustizia sociale, ha aderito alla Società di mutuo soccorso di Volpedo, tiene discorsi ai contadini associati, ne diverrà vicepresidente nel '95. Come scriverà all'Olivero, fin dall'inizio della sua carriera v'è unità perfetta tra la maturazione della sua visione artistica e quella del suo pensiero politico. E' un pensiero che s'agita nella sua mente ed esige di manifestarsi in una rappresentazione plastica. L'ambiente agricolo nel quale vive, da cui è però uscito per gli studi a Milano, a Roma, a Firenze, a Bergamo, per un viaggio a Parigi, uscite fisiche e intellettuali che, tra il 1884 e l'89, hanno formato la sua tempra d'uomo e, almeno in parte, la sua esperienza di artista, influisce sulla concezione dell'opera che va maturando nel suo spirito. Il bozzetto databile 1891-92, non ancora divisionista ma eseguito a larghe pennellate di colore limpido e chiaro, che egli in una lettera al Nomellini del '96 intitolava Ambasciatori della fame (« ...i lavoratori si avanzano e per legge ineluttabile vanno avvicinando i loro alti destini... E' un quadro simbolico »), non ci presenta più una protesta di ope< rai nella città, ma di contadini nell'ambiente stesso familiare di Volpedo, il medejimo dove poi nasceranno i maggiori capolavori pellizziani, da Sul fienile e Processione a II pon te ed Emigranti; ed è — con i « cartoni » per la definizione d'alcune singole figure — la prima idea della grandiosa composizione che secondo l'autore sarebbe dovuta essere il quadro Fiumana Il bozzetto di questa è del 1895. Pellizza è più che mai convinto del significato sociale della sua pittura. Scrive quell'anno a Leonardo Bistolfi: « Tento la pittura sociale. Un accenno alle mie idee umanitarie panai vi fosse già nel mio Fienile — la mia aspirazione all'equità mi ha fatto ideare una massa di popolo, di lavoratori della terra i quali intelligenti, forti, robusti uniti, s'avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere luogo ov'ella trova equilibrio. Appunto Fiumana è il titolo di questo mio nuovo lavoro ». Fiumana, la grande tela del 1896, alta 2 metri e 75 centimetri, larga 4 metri e mezzo, di collezione privata torinese, non fu mai esposta dal Pellizza che tendeva le sue forze a un esito concettualmente, secondo lui, più completo. Comparve in tre mostre postume del pittore, tra le quali quella che noi gli dedicammo nel 1939, allestita nel salone de La Stampa, allora in via Roma. Dovevano passare altri due anni perché l'artista riprendesse la sua opera grandiosa in dimensioni anche maggiori, metri 2,85 per 5,43, elaborando un nuovo bozzetto, nuovi « cartoni » per meglio definire, persino con ritratti di mo- SlbtcgttmicnsntCclgp1dtmdv—SmlbDimtePrrcrsccilSRcG. delli trovati a Volpedo, le va- rie figure. Ha scritto Aurora | Scotti ch'egli, abbandonando le suggestioni letterarie e simbrlistiche di Fiumana, « puntò su un rinnovato confronto con la naturalità delle immagini che evidenziava anche col titolo II cammino dei lavoratori ». Infatti in una lettera del maggio '98 all'amico Pierotti il pittore precisa che i suoi contadini avanzano « tranquilli nel loro onesto pensiero ». La sera del 19 gennaio 1900 annota: « Ieri e oggi ho lavorato al quadro dei Lavoratori... Così la composizione è quasi compiuta! ». Quasi: perché l'ir.contentabile Pellizza indugia sulla tela con le minute pennellate del divisionismo; e 1901 è la data del Cammino dei lavoratori, titolo che all'ultimo momento — probabilmente in seguito alla lettura della Storia Socialista della Rivoluzione Francese del Jaurès — l'autore cambia in Quarto Stato, tuttavia conservando come sottotitolo Cammino dei lavoratori. Comunque l'8 febbraio 1902 Pellizza scrive a Domenico Tumiati: « Ora che il quadro dei lavoratori non manca che di poche pennellate spero sia giunta per me una era di lavoro meno faticoso ». Pochi mesi dopo l'opera appariva -'Ila Quadriennale di Torino, e non vi ottenne il successo che Pellizza aveva sperato; ritornò invenduta nello studio di Volpedo. Questa lunga gestazione del Quarto Stato è stata narrata e criticamente e filologicamente commentata da Aurora Scotti in un libro ammirevole uscito pochi mesi fa, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, con prefazione di Marco Rosei (Milano, Mazzotta Editore, L. 6000), eh'è servito di traccia per la non meno ammirevole mostra promossa dall'assessorato alla cultura del comune di Torino, nella persona di Giorgio Balmas, intitolata « Pellizza per il "Quarto Stato" », alla quale hanno dato il loro intelligente lavoro, oltre la collaborazione della Scotti, i critici Dragone. Galvano, Guasco e giovani studiose torinesi che hanno anche > > curato il catalogo: Gabriella Pelissero, Loredana Ferolla, Rosalba Graglia. E' una mostra esemplare dal punto di vista culturale, che con una straordinaria raccolta di materiale documentario, giornali, opuscoli, libri, disegni, fotografie, dipinti, tutto sagacemente ricercato con incredibile pazienza, non soltanto fa rivivere le motivazioni umanitarie che condussero Pellizza alla creazione del Quarto Stato, e la elaborazione artistica di questo, ma le pone nel clima socio-politico dei fermenti proletari negli anni decisivi delle prime grandi lotte operaie, dei primi « Primo Maggio » che terrorizzavano la borghesia italiana. E' una mostra didattica di altissimo valore storico per un confronto tra passato e presente, per l'insegnamento che se ne può trarre. Ed alla mostra non poteva mancare il suo naturale esito, il Quarto Stato, che per le sue dimensioni non è stato esposto nel foyer del Piccolo Regio, e lo si vede invece nel salone di Palazzo Madama, dove un giorno echeggiò un altro « grido di dolore ». L'immensa tela, prestata dal comune di Milano, ricompare a Torino dopo 75 anni, e i torinesi non devono lasciarsi sfuggire l'occasione di contemplarla. Cos'è il Quarto Stato? Anzitutto è — ha scritto giustamente la Scotti — «il più grande manifesto che il proletariato italiano possa vantare fra l'Otto e il Novecento», e Bertolucci non se ne è dimenticato per il suo film. Per la Pelissero, che si è laureata con un. tesi su Pellizza, altrettanto giustamente, è « la più grandiosa scena di massa della pittura dell'800 italiano ». Ma al di là del suo contenuto ideologico cosi intonato alla convinzione pellizziana circa la « bontà è dignità della folla »; al di là della strumentalizzazione ovviamente attuata dalla stampa socialista dell'epoca (citiamo soltanto il cliché fattone per VAvanti della Domenica), il Quarto Stato, con quella massa umana che dalla tenebra d'un fondo cupo (ed anche questo è simbolo) avanza nel sole, il « Sole dell'Avvenire », con quella superba caratterizzazione formale dei personaggi, e il pathos che deriva dalla luce che svela le miserie umane, la povertà, le sofferenze, la vana speranza d'una impossibile uguaglianza sociale, è una grande opera d'arte. Potentemente realistica, essa ci porta nella sfera altissima dei Delacroix, dei Daumier, dei Courbet, quest'ultimo così vicino agli ideali di Pellizza. Di nuovo aleggia su queste figure lo spirito dei grandi impeti rivoluzionari, del Trenta, del Quarantotto, della Comune. E bisogna anche dire che con essa si chiude un mondo e un altro ne nasce persino nel rapporto dell'uomo con il suo destino, inevitabilmente specchiato dall'arte. Cinque anni dopo l'apparizione del Quarto Stato Pellizza moriva suicida. E lo stesso anno esordiva alla Biennale di Venezia Felice Casorati. Marziano Bernardi Pellizza: studio di figura