Panama vuole il Canale di Furio Colombo

Panama vuole il Canale ENTRO IL '77 UN NUOVO TRATTATO CON GLI USA? Panama vuole il Canale Le tensioni sociali potrebbero esplodere - Si ha fiducia nel presidente Carter - Che cosa dice il vescovo cattolico (Dal nostro inviato speciale) Panama City, marzo. « Amigo, amigo, amigo », dama la folla nera del « Charrillo » fra le case di legno slabbrate. Le ragazze si spingono a turno davanti ai fari dell'automobile per esibirsi in un gesto, i bambini battono le mani a ritmo stila lamiera, usando la macchina americana come un grande tamburo, il vento caldo apre e sventola le camicie a colori. Due ragazzini col corpo, il viso, i capelli, completamente imbiancati dì gesso, saltano sul cofano, premono il viso sul parabrezza. Sanno che contro la luce dei fari la bocca appare di un rosso violento. Sono una maschera minacciosa. Poi ridono, da bambini. Il « Charrillo » è uno dei vecchi quartieri, vicino al mare, dove ci sono ancora gli edifici coloniali e le baracche di legno di chi è venuto gui da tutto il continente a costruire il Canale. Le tende dalle finestre a portico si alzano come bandiere, si sente una banda (sembrano trombe) che suona. « Amigo, amigo », ripete a ritmo la folla che si allontana a piccoli passi strisciati sul cemento rovente battendo le mani, agitandole come un saluto, guardando e ridendo in avanti in cerca dell'estasi che il carnevale sta per portare. Questa è l'eser citazione di una delle «comparse» — di uno dei gruppi di giovani ragazze e bambini — che sfileranno nelle quattro giornate di stordimento e di festa. Attraversando il « Charrillo », guidando lungo il mare assolutamente immobile, da una collina si può vedere il Canale. Questa è la zona americana. Qui la strada è perfettamente asfaltata, ci sono grandi fari e si vedono in basso le luci delle navi che aspettano di passare, le luci delle dighe, il riflesso della luna e dei fari sui tre livelli dell'acqua in cui le navi vengono immerse, abbassate, sollevate di nuovo, come in uno strano battesimo. Si vedono anche, dietro la rete alta e il filo spinato, le case e le caserme dei soldati americani. Stranamente questi edifici non hanno niente delle costruzioni coloniali sud-americane e neppure la forma utile e asettica dei campi militari. Case e caserme sono costruite con il tetto largo e pendente (un gran tetto in alto e /.oi una tettoia che sporge sopra le finestre di tutti i piani) come nei vecchi alberghi di Manila o di Mindanao. Forse è un inconscio ricordo del tempo in cui è nato — insieme — l'unico capitolo del colonialismo americano, la « guerra spagnola », Cuba, le Filippine, Panama. Ci sono nove basi, qui, trentaduemila uomini, un territorio largo dieci miglia e lungo più di quindici che divide il Panama in due parti. Queste cifre le ripetono tutti, in ogni incontro, in ogni conversazione, anche casuale. Non si vedono sentinelle americane nella notte, alla frontiera della «zona ». Si sentono brevi suoni di sirena delle navi, il fischio di risposta del « muli » — le piccole locomotive che trascinano le navi lungo i passaggi del Canale —, lo sbattere metallico di arnesi che agganciano e sganciano. Una teenager salta su dall'erba buttando in aria i capelli biondi, ancora intenta a legarsi la camicia davanti. Mastica gomma e parla, verso il buio, in basso. Splende un braccialettino quando la raggiunge la luce del faro e lei alza il braccio, per salutare, come in televisione. Poi si butta nell'erba soffocando una risata bambina. Più avanti, sul ponte che passa sopra il Canale, due soldati americani fanno un segno circolare con la lampada elettrica. Uno si accosta cortese: a Le luci. Ha le luci abbaglianti ». Ringrazia e si allontana, con il berretto abbassato in avanti e la nuca tonda e rasata. Soldati panamensi, magri, un po' rigidi, si vedono sparsi nelle strade del vecchio quartiere, intorno alla cattedrale, uno o due per ogni stradina. Indicano dove non si deve passare. In fondo, verso il mare, si vede il palazzo del Presidente. Di fronte alla Cattedrale, c'è ancora quel vecchio « Hotel Central » dove Humphrey Bogart entrava guardandosi intorno, togliendosi la sigaretta di bocca, in almeno due o tre film di spionaggio degli Anni Quaranta. « Amigos, amigos. Certamente, qui sono amigos », dice il vescovo Carlos Lewis, che sembra ancora più nero con la tonaca bianca. Ascolta il racconto del carnevale con l'attenzione comprensiva che si accorda ai nuovi venuti. Ma gli interessa il senso politico del discorso: « C'è calma, c'è pace, c'è anche un buon accordo fra la Chiesa e il governo, fra la gente e il governo, fra i lavoratori e il governo. Non sono sempre stati buoni, questi rapporti. Lei ricorda il rapimento di un nostro prete, Hector Gallego, che lavorava con i contadini in una regione molto povera, a Nord. Era il 1971, e non lo abbiamo mai più ritrovato. Allora il nostro arcivescovo, Marcos MacGraath, era stato molto duro verso il governo. Chiedeva: chi è il col¬ pevole? E i giornali erano tutti contro la Chiesa ». « Ma adesso, continua il vescovo, lei trova dappertutto esaltazioni dell'arcivescovo e della Chiesa. Perché? Perché noi abbiamo fatto una dichiarazione sul Canale. Guardi come si intitola: La questione del Canale: una risposta cristiana. Noi diciamo che la presenza americana deve finire, come finisce il colonialismo in ogni parte del mondo. Anche il generale Torrijos lo dice. Il Canale è ciò che unisce tutti a Panama, oggi, ciò che rende forte il governo, e che mantiene la pace sociale. E' una grande attesa, una grande speranza. Guai se cadesse ». Non ci sono, dice, sentimenti anti-americani. C'è la tradizione cosmopolita di Panama, c'è il benessere, relativamente alto anche dove c'è povertà, per un Paese del Centro America. E c'è una lunga abitudine a vivere accanto agli americani senza ostilità e senza risentimenti. Ma il vescovo diventa serio quando dice con un gran gesto della mano senza anelli, nella casa di legno che serve da arcivescovado, e si chiama « El Centro Catolico »: « Questa pace è legata all'attesa. Qui abbiamo pregato per Carter, per la vittoria di Carter. Abbiamo mandato un telegramma di gioia, con la benedizione personale dell'arcivescovo, quando abbiamo saputo della nomina di Andrew Young ad ambasciatore alle. Nazioni Unite. Andrew Young è un uomo religioso e noi sappiamo che sa che cosa potrebbe accadere qui — lui che è stato pastore ». « Qui, prosegue il vescovo, la situazione è confrontabile con quella dei diritti civili negli Stati Uniti nel 1960. Era una bomba che poteva esplodere e fare un danno grandissimo. Noi speriamo che Carter sia un uomo come King, uno che conosce la differenza tra i sentimenti collettivi e le complicazioni politiche. Il Presidente americano potrà avere molte difficoltà con la sua gen¬ te, l'opinione conservatrice americana, forse il Congresso. Ma sa che con i sentimenti collettivi di un popolo si corrono grandi rischi. Oggi c'è pace perché c'è la speranza, anzi la sicurezza che il trattato che ci restituisce il Canale sarà firmato entro l'anno ». Il vescovo dice più lentamente, con la voce piena e rotonda dell'uomo abituato alla predica: « Ora c'è pace, ma non si può dire che non ci sia tensione. La gente aspetta. Ogni speranza, su questa terra, ha un limite ». Dalla strada, nel poverissimo quartiere « Maranon » vengono le grida dei bambini che si rincorrono dentro gli stretti passaggi che dividono le case di legno. La stanza che è accanto allo studio del vescovo serve da scuola. Ci sono bambine con vestitini di cotone impeccabili che ripetono sottovoce una lezione, raccolte a gruppi intorno a ragazze più grandi. Dalla finestra, su un muro spruzzato di molti colori si vede, enorme, la scritta: « Abajo el costo de la vida! ». Sul fondo ci sono i grattacieli bianchi che vengono su dall'erba, come se anche il cemento fosse un frutto della esagerata natura tropicale. Ma, nel taglio netto della luce bianco-oro, si vede bene che molte costruzioni sono vuote, sono bellissimi scheletri. A Panama ascoltano la radio delle Forze armate americane. Guardano la televisione del « Southern Mìlìtary Command Network» dove le notizie sono date da ufficiali in divisa. E aspettano. Questo, ha detto ai suoi cittadini il generale Torrijos, capo del governo e della Guardia nazionale, è l'anno del « consolidamento ». Vuol dire l'anno della realizzazione delle speranze: il Canale, l'economia, il lavoro per tutti. Torrijos e la gente di Panama sanno che non possono rischiare di perdere. Con un certo nervosismo lo sanno anche gli americani che vivono qui. Furio Colombo Canale di Panama. Una piccola, anacronistica colonia statunitense nell'America Centrale (F. Grazia Neri)