Il lungo incubo di Gui di Gaetano Scardocchia

Il lungo incubo di Gui PARLA UN PROTAGONISTA DEL CASO LOCKHEED Il lungo incubo di Gui Roma, 3 marzo. Per quanti sforzi faccia la fantasia, non riusciamo a immaginare l'aula di Montecitorio come un tribunale. C'è qualcosa che non va, che non convince. Forse perché associamo l'idea di giustizia a un qualcosa di solenne. E invece i parlamentari confabulano ironici e distratti, in una girandola di sorrisi e di saluti che è routine, rituale d'ogni giorno. Se cerchiamo i potenziali imputati, scopriamo che sono seduti ai loro posti di sempre, in una ambigua condizione di continuità: destinatari di una accusa, ma nel contempo — in quanto deputati o senatori — anche giudici di se stessi. Sarà almeno una prova di buon gusto se rinunceranno a votare, a tentare essi stessi di assolversi. Visti dall'alto della tribuna stampa, i due ex ministri offrono già l'immagine del tipo di comportamento che ciascuno di essi ha adottato di fronte all'inchiesta Lockheed. Di Tanassi si scorge la sagoma piegata in avanti, col petto quasi riverso sulla mensola del banco, la testa incassata nelle pieghe della giacca, le mani congiunte in un gesto estenuato e sofferto. E' la vittima sacrificale, «l'anello più debole della catena», come si è definito durante gli interrogatori. Gui invece appare disinvolto, quasi altero, ostenta il suo volto rubizzo come una bandiera di sfida agli accusatori. Rumor siede taciturno e sfuggente: non è più un imputato, ma gli occhi di tutti sono ugualmente puntati su di lui. Ai tre massimi protagonisti della vicenda chiediamo, insieme con altri giornalisti, un colloquio. Rumor rifiuta: non ha tempo e non ha voglia di parlarci. Tanassi dice che non intende rilasciare commenti fino a quando il processo non sarà concluso. Ma poi si ferma a salutare qualche conoscente. Allarga le braccia, distribuisce manate mansuete, sorride con gli occhi mesti, come chi si avvia a un destino di espiazione. Gli domandiamo se può almeno dirci cosa pensava stamane mentre si apriva il dibattito che lo vede come imputato più malconcio. E lui, a testa bassa, risponde: «Ero amareggiato, ma ho fatto appello alla mia coscienza e alla mia buona salute ». «La salute? In che senso». E Tanassi: «Nel senso che bisogna avere i nervi saldi», e si allontana trafelato. to? Qui c'è scritto che tu e Tanassi vi siete spartito un miliardo di lire. Le notizie arrivavano da Washington, dalla Commissione Church. Io chiesi subito una copia dei documenti tramite 0 ministero degli Esteri. La ricevetti tre giorni dopo, l'8 febbraio, domenica. C'erano tre o quattro righe che potevano riferirsi a me. Erano ambigue e contraddittorie, ma mi resi subito conto che non era una questione di cui potessi liberarmi tanto presto... ». Si arriva poi al giorno in cui fu svelata l'identità di Antelope Cobbler: « Ricordo il povero Rumor quando fu investito dalla bufera Era nella sua casa di Vicenza, non sapeva niente. Fui io a portargli le prime informazioni. Era stupito, disorientato, la botta gli arrivava nel bel mezzo della campagna elettorale...». E via con i brutti ricordi. La campagna elettorale per esempio: « Sì, anche a me hanno lanciato una volta gli aeropianini di carta. Furono alcuni giovani davanti al teatro Verdi, a Padova, la mia città. Una cosetta da nulla, intendiamoci: a Padova tutti mi hanno mostrato solidarietà. Del resto ho ricevuto montagne di lettere da tutta Italia, dal mondo cattolico, da tanta brava gente che crede nella mia innocenza ». « Senatore, quando dorme sogna l'affare Lockheed?». « No, sogni no. Però la sera sono abituato a vedere la tv. E mi capita spesso di ascoltare le notizie sull'affare Lockheed e su di me. La cosa mi amareggia. Ma poi vado a letto e dormo ». è un partito democratico ». C'è una domanda che in questi giorni ritorna con frequenza nelle conversazioni di Montecitorio: perché Gui, sapendo di poter dimostrare la sua innocenza, non si rimette volontariamente al giudizio della Corte Costituzionale? Risposta: « Se io volessi rimettermi al giudizio della Corte, dovrei votare — come prescrive la procedura — un ordine del giorno che riconosce come fondata e valida la imputazione nei miei confronti. E io dovrei fare questo? Sarebbe come ammettere di essere colpevole. Certo, sono un uomo politico anch'io e mi rendo conto dell'imbarazzo che esiste tra i parlamentari. Però non si può pretendere che Gesù Cristo chieda a Pilato di lavarsi le mani». Comunque, nella sua veste di giudice, Gui non voterà. Si asterrà sia quando verrà messo ai voti il suo rinvio a giudizio che quello di Tanassi e degli imputati cosiddetti «laici». Si è iscritto a parlare, ma solo per precauzione: «Se dovesse saltar fuori dal dibattito qualcosa di nuovo». A molte altre domande, non risponde: « Quando uscirò da questa vicenda, se uscirò, al¬ lora esprimerò tutte le mie opinioni ». La sua ultima dichiarazione è ancora un'arringa a favore di se stesso: «Ricordatevi che come sottosegretario al ministero dell'Agricoltura io ho applicato la riforma agraria, ho espropriato 800 mila ettari di terra, ho tolto il Fucino ai principi Torlonia, e nessuno ha mai osato sollevare dubbi sulla mia integrità...». Un giornalista lo interrompe: « Senatore, il sospetto su di lei riguarda non la sua persona, ma un finanziamento illecito al suo partito...». Gui risponde brusco: « Già, però l'imputato sono io». E su questa battuta l'intervista finisce. E' uno strano processo, questo, con strani giudici e strani imputati. C'è una distinzione? Gui parla più come un accusatore che come un accusato. Le sue proclamazioni d'innocenza hanno il suono di una chiamata di correo. Un giovane deputato de s'aggira un po' smarrito nel grande salone di Montecitorio: «Comincio a capire che ci sono molti scheletri negli armadi — dice — e sento il tremito minaccioso delle ossa... ». Gaetano Scardocchia

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