Il pittore dei Maya di Marziano Bernardi

Il pittore dei Maya MOSTRE D'ARTE di Marziano Bernardi Il pittore dei Maya Rufino Tamayo uno dei "Quattro Grandi" della pittura messiLa grafica di Vespignani - Antonio Testa e Bruno Caruso cana Rufino Tamayo, ch'è l'unico superstite, a 78 anni, dei «Quattro Grandi» della pittura messicana del nostro secolo (gli altri tre sono José Clemente Orozco, Diego Rivera, David Alfaro Slquelros) fu fatto conoscere agli italiani dalla Biennale veneziana del 1950. S'era in pieno picassismo, ma l'allora cinquantenne artista dell'antica terra del Maya e dei Toltechi destò entusiasmo grandissimo. Già ricordammo altra volta il grido gioioso di Mino Maccari: ■ Viva Tamayo I Che con Picasso fa II palo! » (e sottovoce aggiungeva: • Adesso per cinque anni i nostri geniali avanguardisti avranno il loro modello ■). In verità più e meglio del monumentallsmo eroico celebratore del fasti rivoluzionari nazionali, banditore dal muri affrescati (i famosi «murali») di ideologie sociopolitiche degli altri tre «Grandi», Tamayo rivelava quanto I valori della tradizione storica, ricuperati nelle profondità di un sentimento insieme collettivo e Individuale possano esprimersi con assoluta purezza artistica Indipendentemente da qualsiasi parvenza di politicizzazione e populismo. Accennando al suol richiami alle opere scultoree precolombiane, Fernando Gamboa poteva definire Tamayo « uno splendido Interprete del colore di molti aspetti della vita nazionale », senza clamori e stilistici turgori. Da quest'aristocratica riservatezza, da questo raffinato equilibrio tra forme e contenuti, Tamayo non ha derogato neppure nei tardi anni. Lo si vede dalle stupende acqueforti, acquetinte e litografie che « L'Arte Antica » di via Volta 9 ha esposto per la prima volta a Torino. Oltre che immagini di straordinaria suggestione nel loro elementari temi arcaici che spesso richiamano a misteriosi simboli totemici, colpisce la addirittura virtuoslstica perfezione della loro esecuzione tecnica per cui gli inchiostri di stampa persino negli spessori simulano i colori della normale pittura. Sono prodigi di maestria grafica, la quale però non è fine a se stessa, ma vuol riuscire un meraviglioso strumento per esprimere compiutamente ora la carica drammatica (egli non ha mai dimenticato Picasso) ora la patetica gentilezza che si alternano, e talora si confondono, nell'animo di Tamayo. * ★ A parte la sua sensibilità di colorista quando dipinge quadri particolarmente di figura, non era necessario attendere la bella mostra che la galleria «Le Immagini» (via della Rocca 3) gli ha ora dedicato per convincersi che Renzo Vespignani è uno dei maggiori maestri della grafica italiana contemporanea; ma va aggiunto che tale livello d'arte egli lo toccò ancor quasi ragazzo quando nell'immediato dopoguerra, imbrancato nel «Gruppo del Portonacclo» e soverchiando di più d'una testa I compagni, disegnava con magnifica efficacia gli squallori e la grama e triste umanità della periferia romana (a Roma è nato nel 1924) creando un pendant ai film di Rossellini e degli altri assertori del nostro cinema realistico. Già aveva descritto clandestinamente gli orrori dell'occupazione tedesca, e fu per lui naturale trasponi con la'penna e col bianco e nero dell'Incisione nell'area morale d'una denunzia alla Grosz delle condizioni d'una società distorta dalle iniquità sociali. Se a distanza d'anni esaminiamo l'intero percorso di Vespignani — com'è possibile fare in questa mostra, dal '52 ad oggi — vediamo che l'ispirazione di fondo e la coerenza stilistica della drammatica acquaforte Incìdente, del '57, sono le medesime delle superbe 15 Incisioni che, In cartella, dopo un ventennio illustrano le poesie di Francois Villon: Il brutale episodio di strada si è semplicemente liricizzato nel sarcasmo amaro del poeta. E' questa continuità sentimentale, radicata sulla convinzione che soltanto l'immagine « reale • può tradurla rendendola evidente e di colpo credibile, che fa la forza, a nostro parere, d'uno stile grafico e pittorico inconfondibile, che di volta in volta riesce ad adeguarsi alla piena espressione di ciò che s'aqita nell'intimo dell'artista: rivolta contro le Ingiustizie umane, pietà, tenerezza, generoso amore. Nella galassia di mostre torinesi che non possiamo recensire per mancanza di spazio anche se lo meriterebbero, ne Indichiamo due che vorremmo fossero visitate (se questa nota uscirà prima che chiudano): quella di Antonio Testa dal • Fogliato» (via Mazzini 9) e quella di Bruno Caruso alla ■ Narciso » (piazza Carlo Felice 18). Del Testa questo centinaio d'opere costituisce la prima ■ personale » della sua vita: a 73 anni. Episodio eccezionale evidentemente legato a una personale condizione d'indipendenza pratica, che tuttavia non sminuisce un senso di dignitoso e forse orgoglioso riserbo. Allievo del torinese Alberto Rossi, uno degli ultimi «orientalisti», il Testa ne ereditò l'impianto veristico delle figure; e Infatti Giacomo Grosso lo pregiava moltissimo. Su questo ceppo s'innestò l'amore per la cultura pittorica barocca, particolarmente per un tenebriselo alla Magnasco, Il maestro prediletto dal Testa anche per la tematica tra religiosità, satira e senso del macabro. Fosse vissuto tre secoli prima, il Testa avrebbe certo Impiegato la sua densissima, ribollente materia cromatica ad ammonire II prossimo con delle «vanità» ben fornite di teschi. Ma la pluralità dei suoi Impulsi drammatici e sarcastici, e di sensi acutamente moderni, l'hanno invece indotto a modellare anche, con materiali poveri e persino carta di giornale, delle gustosissime maquettes, delle quali alcune fan pensare a Daumier e Cavami. Nell'ultimo decennio dell'attività di Bruno Caruso che questa sua nuova «personale» (la sesta o la settima a Torino) prospetta, si nota come rimanga inalterata — pur nella copiosa varietà del temi di cui tratta Enzo Bllardello nella monografia delle «Edizioni Trentadue» (Milano, 1975) — la compattezza della gremita figurazione, un effetto ottico dovuto a quella specie di fittissimo «puntinismo», col quale il pittore foggia il tessuto della sua composizione. Che per lui non si possa parlare di un pointillisme neoimpressionlsta alla Seurat, è ovvio. Piuttosto gli si deve riconoscere una manualità artigianale così impegnata da divenire personalissimo stile. mar. ber.

Luoghi citati: Milano, Roma, Torino