Tornare a casa con il voto di Franco Mimmi

Tornare a casa con il voto IL PROBLEMA DELLE ELEZIONI PER GLI EMIGRATI ITALIANI Tornare a casa con il voto Esistono quattro proposte di legge, una d'iniziativa popolare, che dovrebbero consentire di votare senza il rimpatrio - Ma non sembrano superare le difficoltà pratiche, giuridiche, costituzionali - Le elezioni del 1978 per il Parlamento europeo Roma, marzo. Nel tentar dì mettere gli emigrati in condizione di votare senza dover rientrare in Italia si incontrano — tutti ne convengono — tre tipi di difficoltà: pratiche, giuridiche, costituzionali. Per i critici del voto per corrispondenza, la Costituzione ne è offesa poiché non sarebbe assicurato il « voto personale, libero e segreto». Al voto presso le sedi diplomaticoconsolari si rinfaccia la difficoltà di ospitare a un seggio migliaia di persone (in Argentina, oltre un milione di votanti si riverserebbe su un'ambasciata e sei consola¬ ti). Le difficoltà giuridiche sono poi di due ordini, quelle derivanti dalle leggi italiane e quelle delle leggi del Paese ospite: come far stazionare forze dell'ordine italiane a custodia dei seggi costituiti all'estero? Come far sì che un regime dittatoriale consenta la pratica elettorale a un gruppo di ospiti, dando così un pericoloso esempio ai locali? Si considerino le tre proposte di legge presentate nella corrente legislatura e quella d'iniziativa popolare dell'Associazione italiana alpini (Ana). Prima fra tutte quella dell'msi, depositata già il 5 luglio scorso (e dì fronte alla solerzia missina molti si chiedono perché, avendo avuto a disposizione un ventennio e pieni poteri, abbiano atteso Repubblica e Costituzione per scaldarsi tanto sui diritti e l'uguaglianza dei cittadini italiani). La proposta, l'unica che cerchi di fornir soluzioni a tutte le difficoltà, si basa sul voto per corrispondenza (ma sarà « personale, libero e segreto »?). consiglia che si effettui solo per le elezioni polìtiche e non per le amministrative, che comporterebbero difficoltà ancora maggiori (il che è logico, ma è una nuova discriminante). Propone l'istituzione di una « Direzione generale per il servizio elettorale ed anagrafico dei cittadini italiani all'estero », che si occupi della tenuta delle liste elettorali e delle operazioni necessarie allo svolgimento del voto (in pratica un « Comune » di 6 milioni di abitanti sparsi in tutto il mondo). Chiede modifiche della Costituzione, proponendo di aumentare i deputati da 630 a 670 e i senatori da 315 a 335. Le operazioni di voto sono studiate nei particolari, ma risultano così complesse che per l'invio a Roma di tutte le schede raccolte nelle varie sedi diplomatiche si avverte: « Per l'effettuazione di questo servizio andranno senz'altro adibiti appositi aerei ». Infine, discrimina una volta di più i residenti all'estero in quanto non può concedere loro i comizi e la pubblica propaganda, ovviamente vietati su suolo straniero. Tutti dal console Poi vi è la proposta di un gruppo composto dai democristiani Sinesio, Costamagna, Aliverti, Morini, Fusaro e Ines Boffardi; dal repubblicano Bucalossi; dal socialista Di Vagno; dal socialdemocratico Righetti; dal liberale Bozzi. Dice: « I certificati elettorali sono rilasciati dal console d'Italia a tutti i cittadini in possesso di un passaporto valido e le operazioni di voto si svolgono presso un seggio elettorale costituito dal console presso la sede del consolato d'Italia ». Ecco quindi gli eserciti di elettori per seggio e i conseguenti problemi d'ordine pubblico che non si sa qual Paese, per quanto amico, sia disposto ad affrontare. Anche qui si chiede di ritoccare la Costituzione (verrebbe eletto un deputato ogni 50 mila voti e un senatore ogni 80 mila) e si vieta ogni forma di propaganda elettorale. La terza proposta è d'iniziativa dei deputati de Scalia e Bianco, seguiti da una fila di 77 colleghi. Si suggej risce di far volare gli emi- grati come se si trovassero in patria, registrandoli nei comuni di nascita. Agli elettori vengono inviate le schede che, espresso il voto (di nuovo: sarà segreto?), vanno inviate o consegnate alle sedi diplomatiche e consolari, dove avverrà lo scrutinio. La novità di questa proposta sta nel fatto che non si indicano soluzioni ai problemi, ma si demanda al governo il compito di emanare decreti per regolamentare «il diritto di voto e dì rappresentanza degli italiani all'estero ». Insomma: una legge-delega. Flaminio Piccoli, in un suo articolo nel quale ammette che la Costituzione non sancì espressamente il voto per gli italiani all'estero per le difficoltà d'ordine pratico e l'impossibilità di garantire i dettami costituzionali, fa un'analisi dettagliata di tali ostacoli. Anche egli non suggerisce soluzioni. Definisce la legge-delega « un'ipotesi che noi riteniamo valida ». per avviare a soluzione il problema. Conclude: « Sono problemi che, comunque, potranno essere ampiamente dibattuti in sede parlamentare ». E infine, la proposta di legge di iniziativa popolare lanciata dall'Ana nel maggio 1976 e per la quale si è chiusa il 20 febbraio la raccolta delle firme. Nove articoli in tutto, che consentono il voto per le politiche e i referendum ma non le amministrative. Richiesto il certificato elettorale ai Comuni di provenienza tramite le sedi diplomatico - consolari, in quelle sedi stesse i cittadini residenti all'estero si recherebbero a votare (di nuovo: affollamento, ordine pubblico, e la considerazione che in certi Paesi — un caso: il Brasile — il viaggio residenza-consolato potrebbe essere per qualcuno pari al viaggio Stoccolma-Roma). Le schede verrebbero poi inviate in Italia e qui scrutinate. Sul voto all'estero, teoria e pratica, il movimento sociale non ha tentennamenti. Anche per liberali e socialdemocratici la posizione del partito si identifica i con le presenze di Bozzi e Righetti in una delle proposte di legge (il psdi ha pure affermato la propria adesione alla iniziativa dell'Aria). I repubblicani, presenti nella stessa proposta con Bucalossi, ufi ficialmente sono un po' più sfumati. «Lo riteniamo un problema da affrontare e risolvere — ha detto il segretario del gruppo alla Camera, Candidori —. Non abbiamo però ancora discusso il come risolverlo sul piano tecnico ». Malgrado la firma di Di Vagno nella medesima proposta di legge, in un convegno tenutosi a gennaio a Bruxelles i socialisti hanno esternato alcune perplessità, soprattutto per ciò che riguarda l'impossibilità di svolgere una propaganda elettorale. Il partito comunista è sempre stato dall'altra parte della barricata, sostenendo l'impossibilità di risolvere tutte le difficoltà — pratiche, giuridiche, costituzionali — che il problema via via presenta. « Vi è un argomento morale che viene sempre avanzato — dice Giuliano Pajetta, responsabile del settore emigrazione del pc —: è ingiusto che gli emigrati non possano votare. Certo. Ma è anche ingiusto che abbiano dovuto andarsene. In questo modo, seminando illusioni facili e confusioni, si fanno dimenticare le premesse ». Gli "affossatori" I comunisti hanno proposto, alla fine dello scorso anno, l'istituzione di una Commissione di studio sul problema del voto all'estero. Dovrebbe lavorare dì concerto con la Commissione affari costituzionali. Qualcuno ha accusato il pc di voler «affossare» in questo modo le varie proposte di legge, e certo non è pensabile che esso, dopo quanto ha sempre sostenuto, si attenda da questa Commissione risultati concreti. Più che l'« affossamento » di inìzative altrui, è però probabile che lo scopo del pei sia mettere il Parlamento di fronte all'impossibilità di trovare una s>oluzione. E infatti i comunisti continuano a proporre la soluzione opposta: aiutare gli emigranti a rientrare al momento del voto. Nel '74 il pc presentò una proposta di legge in questo senso, che prevedeva il rimborso delle I spese dì viaggio e una cifra prò capite, quale parziale rimborso spese, di 25 mila lire per i provenienti dai Paesi europei, di 50 mila per gli altri. Opposizione: una somma insostenibile. Anche per Cgil, Cisl e UH l'obiettivo realizzabile consiste nello stipulare accordi coi vari governi per ottenere all'emigrato che torna a votare la garanzia del posto di lavoro, permessi speciali, viaggi a condizioni vantaggiose. In secondo luogo, i sindacati intendono promuovere l'inserimento dell'emigrato nella sua nuova società, cercare di ottenergli il pieno esercizio dei suoi diritti. In Svezia, ad esempio, già oggi gli immigrati residenti possono votare alle locali elezioni amministrative. Malgrado la legione di firme democristiane sulle proposte di legge, anche in seno alla de qualcuno nutre intimi dubbi sulle possibilità di soluzione. Luigi Gìrardin, deputato fino alla scorsa legislatura e vicepresidente dell'Unaie (Unione nazionale associazioni degli immigrati e degli emigrati), dice che c'è il diritto sancito dalla Costituzione, e che la de è sempre stata favorevole a una soluzione del problema malgrado gli ostacoli tecnici. Ma vi è una mèta, secondo Gìrardin, raggiungibile, quella delle elezioni del 1978 per il Parlamento europeo. « Se si risolverà la cosa sul piano europeo, in un secondo tempo si giungerà al fatto generale ». Il principio dì Gìrardin, condiviso dai sindacati, si può così riassumere; è assurdo che non si possa dare il voto per l'Europa quando si è in un Paese europeo, anche se non quello d'origine. Vi sono proposte delle confederazioni sindacali per istituire una Commissione nazionale che affronti il problema con gli altri Otto e con la Cee. Ma vi è anche già chi obbietta che gli italiani non residenti in Europa verrebbero di nuovo discriminati. Avrebbero infatti ogni diritto dì votare per il Parlamento comunitario. Anch'esso assai problematico — e lo dimostra la rinunciataria scelta della Cee, di far svolgere le elezioni nei nove differenti modi nazionali — il problema del voto europeo lascia tuttavia intravedere la luce in fondo al tunnel. Infatti, se' la Comunità compirà passi effettivi verso l'unità, è chiaro che si dovrà giungere a un adeguamento dei vari codici, nel rispetto o addirittura nel superamento delle varie Costituzioni. Ma chi se la sentirebbe di ipotizzare una Costituzione mondiale? Si dice anche: eppure, per cittadini di altri Paesi il voto all'estero non comporta tante difficoltà. E' vero. E' chiaro che non vi sono difficoltà, ad esempio, per uno svedese, cui è consentito di delegare altri a votare al suo posto, di esprimere il voto su un qualsiasi pezzo di carta. Francesi, inglesi, americani hanno a proprio vantaggio una diaspora ben più ridotta e strutture diplomatiche — vuoi per residuo dì vecchi imperi, vuoi per necessità di imperi attuali — ben più capillari di quelle italiane. Malgrado ciò, il loro numero di votanti allo estero è poi assai ridotto: i civili servante, i militari, qualche raro uomo d'affari fuori sede. Ma soprattutto, diversi sono i principi cui si ispirano le varie leggi elettorali. Gli inglesi, per esempio, si basano su una norma che semplifica tutto: « Non taxation without representation », dicevano i coloni americani che diedero il via alla rivoluzione: non paghiamo tasse, visto che non siamo rappresentati al Parlamento di Londra. E Londra ha capovolto il concetto: « No representation without taxation», niente voto se non paghi le tasse inglesi. Chiaro e semplice. Ma anche questo, per la Italia, sarebbe anticostituzionale. Franco Mimmi