Profughi da Saigon sognando l'America di Lietta Tornabuoni

Profughi da Saigon sognando l'America L'attesa disperata dei vietnamiti che vivono nelle baracche di Latina Profughi da Saigon sognando l'America LATINA — «In America, o Canada. Lì c'è scuola per studiare inglese, per studiare un mestiere, e dopo la scuola c'è lavoro. Qui in Italia non c'è lavoro, neanche per gli italiani c'è il lavoro, per noi non c'è niente del tutto...», spiega Ngo Ba San con voce cortese senza emozione, aggiustandosi il giubbetto e i jeans azzurri. Come milioni di profughi d'ogni nazionalità in tutto il mondo, ha già cominciato a sognare il sogno americano. Con altri trentadue fuggiti dal Vietnam, sette famiglie, sta in Italia da nove mesi: altri quattro vietnamiti sono arrivati alla vigilia di Natale, padre, madre, due bambini piccoli e bellissimi, che giocano a infradiciarsi i piedi calpestando le pozzanghere di pioggia; altri diciassette dovevano arrivare oggi, ma non arrivano e non si sa dove siaìio finiti. Piccoli, minuti, rabbrividenti nei panni dell'assistenza, al Centro Emigrazione Profughi Stranieri «Roberto Rossi-Longhi-, di Latina, i profughi dal Vietnam appaiono infinitamente estranei. Smarriti, pazienti («tra. tutti sono i più educati e tranquilli», dice il sottufficiale di polizia), siedono snervati dall'ozio, fissano sema capire il presepe allestito sul frontone dell'edificio centrale, le scritte sui muri («Dio c'è», «Walter vive», «A morte Somoza»;, gli alberi d'eucaliptus e i bulgari, cecoslovacchi, polacchi, slavi che costituiscono da anni la turbolenta popolazione di questo campo specialmente destinato ai profughi dai Paesi dell'Europa orientale. Infimo scampolo, minima parte della grande drammatica migrazione e diaspora dei vietnamiti che ogni giorno abbandonano il Paese, sono capitati in Italia perché le donne si chiamano Morando, Cosimo, Orlini: sono figlie di madri vietnamite e di padri italiani, ex arruolati nella Legione Straniera o commercianti. Oppure perché sono stati salvati dalla morte per annegamento da una nave militare italiana, la «Pertusola»: com'è capitato a Nguyen Hong Phong, che ancora vive nell'incubo di quella fuga da Tuy Hoa compiuta con i suoi su una barca troppo leggera, volontariamente fatta naufragare nella speranza di venir ripescati da qualcuno che si prendesse cura di loro. Si parla male. Soltanto Ngo Ba San ha imparato un poco d'italiano, nell'esperienza e studiandolo su certi libri datigli al centro Don Bosco di Saigon; sua moglie, che porta un cognome italiano, noìi sa una parola della lingua; pochi altri sembrano riuscir a spiccicare qualcosa in francese e inglese. Magari si difendono, o magari non hanno più voglia di parlare. Il passato lo ricordano malvolentieri, con lacune, contraddizioni e nebulosità che traducono una cautela spaventata da profughi: a Saigon, da dove quasi tutti provengono, erano bottegai, gestori di locali, militari. Una è vedova d'un aviatore americano. Uno aveva una piccola industria di falegnameria. Ngo Ba San era sottufficiale nell'esercito di Van Thieu ina lavorava per gli americani, magazziniere in un campo di marines. Sono partiti dal Vietnam per lo più in aereo, diretti a Bangkok, senza che le autorità volessero trattenerli. Le ragioni della fuga suonano sempre uguali: «Per noi soldati del vecchio esercito era molto difficile vivere, non potevamo lavorare, i posti di lavoro andavano tutti ai comunisti»; «Negozi e fabbriche sono stati sequestrati, non erano più nostri ma del governo, e il governo era nemico dei proprietari»,- «Le mogli di americani avevano una terribile vita, disprezzate»; «Non c'era da mangiare, tutto razionato, un chilo di riso a testa per un intero mese»; «Avevamo paura di dover andare un'altra volta in guerra,, contro i cambogiani»; «Per noi è impossibile vivere con i comunisti». Il presente gli appare migliore, ma sempre brutto. Non esistono scuole per i bambini, né per quelli di loro che vorrebbero imparare l'italiano. Mangiano, ma trovano il cibo sin troppo nutriente, i rigatoni al sugo della mensa del campo gli risultano grevi: alla sera sì cucinano il riso nelle loro stame, in baracca. I vecchi tremano tutto il giorno per I il clima troppo freddo. I buddisti non hanno modo di praticare la propria religione. La rappresentanza diplomatica del loro paese li ignora, e si capisce: «Noi non piacciamo ai comunisti dell'ambasciata». A occuparsi un poco di loro sono il padre Hoai, sacerdote cattolico che ogni tanto viene in visita da Roma, e il pastore evangelico americano che già sovrintende ai profughi dall'Urss raccolti nel campo di Ostia. L'ignoranza della lingua li rende sordomuti, li isola in un clamore di voci indecifrabili. Le loro giornate, senza nulla da fare né da sperare, sono lunghe e tristi. La mancanza di futuro li angoscia. Il solo avvenire che riescono ad immaginare è l'America conosciuta ai vecchi giorni di Saigon. Contìnua a ripetere Ngo Ba San: «L'italiano è povero, non è ricco come l'America. Qui, cosa fare per avere un lavoro, una casa? Un altro luogo, un altro campo? Io non so dove possiamo andare, come possiamo vivere...». Lietta Tornabuoni

Persone citate: Don Bosco, Longhi, Ngo Ba, Nguyen Hong Phong, Roberto Rossi, Somoza, Van Thieu