"Mio padre mi ha teso una mano poi l'ho visto sparire tra i flutti,, di Silvana Mazzocchi

"Mio padre mi ha teso una mano poi l'ho visto sparire tra i flutti,, "Mio padre mi ha teso una mano poi l'ho visto sparire tra i flutti,, DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE PALERMO — Il mare ha spezzettato, inghiottito, cancellato U teatro della tragedia. Non esiste qui, come accade nelle storie dei disastri, un luogo dove dirigersi, non c'è l'anfiteatro della sciagura. Ieri, nel mare a Nord di Punta Raisi, dov'è precipitato il DC-9 «Isola di Stromboli» sono sparite 129 persone e solo 21 sono riemerse vive. Sono i superstiti. Alle 5 del pomeriggio i sommozzatori ancora cercano i morti, mentre anche la chiazza nera lasciata dal kerosene si va diradando e sembra irreale che quel mare contenga tanti cadaveri. Trentadue persone sono state ritrovate finora da ieri notte; i loro corpi ripescati, soli o attaccati ai seggiolini della carlinga, sono stati caricati sui pescherecci e sulle pilotine, poi trasportati all'Istituto di Medicina legale e disposti, a due a due, in terra, lungo i corridoi. Nel pomeriggio ancora dieci tra i morti non erano stati identificati, mentre gli altri, trasferiti in una palazzina accanto, erano già stati rinchiusi nelle bare. Era mattina avanzata quando un altro DC-9 dell'Alitalia, l'aereo con a bordo qualche parente, la Commissione d'inchiesta del ministero e i cronisti, partito da Roma, è arrivato a Punta Raisi. -Tutti abbiamo avuto problemi atterrando in questo aeroporto — dice Giuseppe De Marie, Hcomandante —. A terra ci sono radioassistenze ridicole e il radar è un giocattolo». Giuseppe De Marie è torinese. La sua testimonianza è importante: era molto amico di Sergio Cerrina, il pilota dell'.Isola di Stromboli». «Suo padre aveva una scuola di volo tra le 'migliori d'Italia e lì lo conobbi^, conclude. I ventunoi superstiti, gli «scampati», sono ricoverati per la maggior parte all'ospedale civico, a poche decine di metri dall'obitorio. Le due costruzioni sono una di spalle all'altra: al Civico ci sono i vivi, 1 testimoni, gli unici che possono raccontare quegli attimi, quando nel buio, l'aereo si è immerso in mare. Avvicinarsi agli scampati non è difficile: in loro c'è un misto di gioia e stupore per essere sfuggiti al destino degli altri e quel sollievo quasi vergognoso di chi non ha condiviso la disgrazia comune. All'istituto di medicina legale continua il pellegrinaggio dei parenti degli scomparsi. Una volta arrivati si dividono in due: c'è chi entra nella prima palazzina dove ci sono i corpi non identificati e chi, rassegnato, va verso la seconda, dove in tre stanzette sono allineate già 15 bare di legno marrone con sopra il nome dei morti inciso in oro su targhe nere. Il primo itinerario è quello tra i vivi. La prima voce è di gioia: «Non credevo potesse accadere; una madre e una figlia sullo stesso aereo che si salvano insieme». Fortunata Parlavecchio Mascall, una donna di 33 anni, bruna, parla rapida. E' illesa, ha solo qualche livido. «Cosa ricorda?», è la domanda, «Io dormivo —ri- sponde — non ho sentito niente. Solo quando l'aereo ha toccato il mare c'è stato un gran botto, poi l'acqua ha cominciato ad entrare dentro. E' stato un attimo, poi mi sono ritrovata in mare. Era buio e sentivo pianti, urla, lamenti. Ho cominciato a chiamare mia figlia, Anna, e l'ho sentita dire disperata "Sono qui". L'ho raggiunta a nuoto, era poco distante, l'ho afferrata e lei è svenuta. Un miracolo, perché queste cose non succedono maii. Arriva la figlia. Anna è avvolta in una coperta, ha quattordici anni, è quasi adulta. «Dormivo anch 'io e non so ricordare che il buio e l'acqua. Mi sono svegliata che mi sembrava di vivere un incubo. Poi è arrivata mamma e mi ha salvata». E' un racconto di speranza e di fortuna, subito spezzato dal pianto di Giovanni Alla, venezuelano di Caracas, 18 anni. Anche lui non ricorda come l'aereo sia precipitato; rammenta solo quei terribili minuti successivi. «Io ero in acqua, nuotavo, chiamavo mìo padre. Un peschereccio mi ha visto, i marinai mi hanno tirato su. Mio padre si è attaccato alla barca. Ho visto il suo braccio che ha afferrato la scaletta. Ho pensato: è fatta. Invece si è perso ed è sparito nel mare, annegato». C'è chi ricorda i meno fortunati: «Ho negli occhi l'immagine della donna che sedeva accanto a me con un bambino di pochi mesi — racconta Giuseppe Cimador, un impiegato della Sit-Siemens, trentenne —ci ho pensato, appena da un peschereccio ho sentito una mano che mi tirava su dall'acqua». Racconta del momento del disastro: «Ho visto prima j un'ala che toccava il mare, poi ho sentito una serie di scossoni. Mi sono, come d'istinto, slacciato la cintura di sicurezza e questo credo mi abbia salvato. Ho realizzato quanto accadeva che ero già sommerso. Era tutto buio e sono riaffiorato, credo da sotto l'aereo quando si era già spaccato». Dal ricordo dei sopravvissuti si ricostruisce «dal di dentro» il momento dell'impatto. «Potevano essere luna meno venti, non ricordo bene — dice Francesco Zumbo, sottotenente del Genio —, quando il comandante ha fatto annunciare al microfono che stavamo atterrando e che avremmo dovuto toccare Punta Raisi in venti minuti, ma che non sapeva essere preciso perché c'era un forte vento. La voce ha poi aggiunto perfino che a terra facevano tredici gradi di temperatura. E' trascorso forse un minuto, due, non so. Poi si è sentito come un tonfo, un botto insomma, ma non fortissimo. E mentre qualcuno già si svegliava e io tentavo di capire, è arrivato un altro botto più forte. Si è spenta subito la luce. Da quel momento gli attimi si sono susseguiti frenetici. L'aereo si è spaccato e l'acqua ha cominciato a entrare nella carlinga». Ma nessuno — ci si chiede — ricorda di più? Possibile che il pericolo non sia stato realmente avvertito da nessuno? Pietro Carruba, un uomo giovane, sembra ancora sconvolto. Si tocca il viso ferito, ha una gamba spezzata e l'hanno ingessato. «Deve essere successo tutto improvvisamente perché nessuno dell'equipaggio ci ha avvertito di niente — dice —. Io ero seduto al centro dell 'aereo; tio sentito come due tonfi ripetersi, poi l'aereo si è aperto, si è spaccato e insieme al buio è entrata tanta acqua. Poi è arrivato il peschereccio». «Io ricordo qualcosa solo da quando ho visto il mare entrare dentro '— racconta Giovanni Martorana, 20 anni, agente della guardia di Finanza di Livorno —, in quel momento ho sentito un forte scoppio nella parte anteriore dell'aereo, dove c'era la cabina. Ho pensato che per l'equipaggio era la fine; poi è successo un pandemonio». Ci spostiamo nelle due palazzine dell'Istituto di medicina legale. Sono le 6 di sera. Nella prima palazzina, nella prima stanza, sono allineate tre bare con i nomi: Elisabetta Pizzuti. Nunzia Farina, Lina Sebastiano. Non c'è nessuno intorno a loro. A destra, nel corridoio un'altra cassa marrone. Qualcuno la apre: s'intravede il volto di un giovane uomo barbuto, ricomposto. Il coperchio si chiude e sopra c'è il nome: Giuseppe Parsanisi. Anche lui è solo. Nelle altre stanze, altre bare: Maria Finocchiaro, Paolo Di Mauro, Giovanni Scaccia. Sulla cassa chiusa di quest'ultimo, piange disperata la moglie e non si vuole staccare. Ancora altre bare: sono di Angelo Russo, di Giuseppe Giacalone, uno dei morti di un'intera famiglia di cinque persone provenienti da Torino —tre adulti e due bambini —11 Vicino a lui una cassa minuscola tutta bianca. Sopra c'è scritto: Federico Giacalone. E' il bimbo più piccolo della famiglia: aveva pochi mesi. Silvana Mazzocchi Palermo. Uno dei superstiti del DC9 soccorso in mare dagli uomini di un motopeschereccio alla luce delle fotoelettriche

Luoghi citati: Caracas, Italia, Livorno, Palermo, Roma, Torino