L'errore di Manin il rivoluzionario di A. Galante Garrone

L'errore di Manin il rivoluzionario UN LIBRO SUI MOTI "BORGHESI,, L'errore di Manin il rivoluzionario C'è una lunga, insigne tradizione di studi inplesi sul nostro Risorgimento, che riconosce il suo capostipite in G M Trevelyan e ad essa degnamente si riannoda l'ultimo suo esponente, il giovane Paul Ginsborg. con un libro edito da Feltrinelli. Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del lS-48-4'J. Non già che l'autore non sappia, quando è il caso, distaccarsi da quel filone tradizionale, addirittura capovolgendo, in qualche punto, i giudizi di Trevelyan su Manin a Venezia «Anch'io sono figlio del mio tempo», dice Ginsborg Fin dalle prime pagine, è palese l'ispirazione gramsciana Anche se poi sono saggiamente attenuati e sfumati i giudizi troppo rigidi di quella storiografia che. richiamandosi a Gramsci, ha insistito sulla «rivoluzione agraria mancata» Quello che piace, in questo libro, è il rigore della ricerca, il respiro europeo, la fluidità del racconto Sullo sfondo della Venezia della Restaurazione, culturalmente ed economicamente sof- focata dal dominio austriaco, ma già dopo il 1830 percorsa da fremiti di libertà e di progresso, particolarmente sentiti in gruppi esigui della borghesia più intraprendente e illuminata, campeggia la figura di Daniele Manin Ottime le pagine sulla formazione dell'uomo, sulla sua magnifica decisione e accortezza di autentico rivoluzionario nelle decisive giornate del 17 e 22 marzo 18-18. sul suo graduale spostarsi su posizioni più moderate, sulle ragioni della sua immensa popolarità, sul significato del grido che allora con lui si levò. «Viva San Marco», seguito dall'altro. «Viva la Repubblica». Certo. Manin fu un rivoluzionario borghese, come borghese fu la rivoluzione da lui capeggiata Ma poteva essere altrimenti, nella Venezia e nell'Italia di quegli anni? Ed è indubbio un certo conservatorismo sociale, non meno di una timorosa diffidenza di Manin per gli impulsi trasmodanti di quello che egli giunse a chiamare il «popolaccio» tsignificativa traduzione della «populace»): un atteggiamento che si sarebbe anzi venuto accentuando col passare dei mesi. Ma quelli erano i tempi. nell'Europa già inclinante alla reazione, dopo la tempesta rivoluzionaria: e le giornate parigine del giugno '48 — che larga eco suscitarono a Venezia, come il Ginsborg ci rivela - avevano pur lasciato un segno Sulla Laguna, non si voleva saperne del «sanguinoso entusiasmo» del '93. delle «ombre» di Robespierre e di Marat così ci dicono i documenti dei contemporanei. Un limite innegabile di Manin fu quello di avere concepito la rivoluzione solo come urbana Si poteva e si doveva pensare di più alle province, alle campagne, anche alla montagna Le imprese di Pier Fortunato Calvi in Cadore ci dimostrano quali possibilità fossero lasciate cadere. Perfino talune iniziative di guerra partigiana non erano fuori della realtà (e. aggiungiamo noi. qualche episodio poco noto del 1866 lo avrebbe più tardi dimostrato) In una lettera del 25 maggio '48 leggiamo: «In qualunque evento facciamola alla spagnola». Ed effettivamente, nei primi giorni della rivoluzione, un grande fermento corse le campagne del Veneto, e penetrò perfino nel basso clero, che da tempo era elettrizzato dalla politica di l'io IX. C'era, in tutto questo, qualche potenzialità rivoluzionaria, che Manin non seppe o non volle sfruttare: anche se ci pare che Ginsborg forse un po' esageri in questa considerazione dell'entusiasmo dei contadini e dei parroci per la rivoluzione. Si trattò di una fiammata momentanea e superficiale — dovuta al risentimento contro l'Austria e al sollievo per alcune misure economiche adottate dal governo repubblicano — . che non intaccò il conservatorismo di fondo, durato ancora per decenni. Non credo che un appello anche vigoroso alle masse contadine avrebbe potu¬ to cambiare radicalmente il corso delle cose. E che dire del rimprovero mosso ai governanti veneziani, e specialmente a Manin, di non avere tempestivamente ed energicamente invocato un intervento della Francia repubblicana? E' vero che Manin (e con lui tanti italiani) fu allora come ipnotizzato e paralizzato dalla guerra di Carlo Alberto, e rifuggì per questo dal tentare vie più audaci. Ma non dobbiamo nasconderci che in ogni caso — anche nella primavera del '48 — un invito siffatto ben difficilmente sarebbe stato accolto Il chiasso che facevano a Parigi, in prò dell'intervento, i clubs popolari e le correnti democratiche non ci deve illudere Premevano, in senso contrario, troppe altre forze politiche e diplomatiche all'interno della Francia, e fuori Tutto questo nulla toglie alle responsabilità di Manin per LI suo eccessivo astenersi da iniziative che potessero compromettere la «fusione» voluta dal re sabaudo. Troppo a lungo egli propugnò la necessità di non abbandonare la «politica d'aspettazione, la sola che possa salvare Venezia, e con Venezia l'Italia». Più la situazione si faceva critica, disperata, più egli cercò di evitare drammatiche scelte di rottura Ironicamente Gustavo Modena (una delle figure che. come quella di Tommaseo, più spiccano in questo libro per la bella risolutezza degli accenti) osservava che Manin, nel piangere sulla sorte della patria, avrebbe consolato la propria coscienza col dirsi: «Tutto è perduto, fuorché la legalità». Ed è anche vero che il capo veneziano commise non lievi errori per tutto quel che concerneva gli apprestamenti militari e la condotta della guerra, la difesa del Friuli e poi delle città del Veneto, il mancato tentativo di impedire il congiungersi delle truppe di Nugent con quelle di Radetzsky. l'estrema difesa della repubblica. Nel tragico estinguersi dei moti rivoluzionari in tutta l'Europa, Roma e Venezia rimasero due fulgide isole di resistenza; Roma più ancora di Venezia. Ginsborg mette bene in luce i rapporti fra Mazzini e Manin, le coincidenze e poi il progressivo distacco fra i due rivoluzionari. Nell'ottobre del '48 Manin, in una lettera a Montanelli, aveva avuto accenti quasi mazziniani: «Della guerra di prìncipi abbiamo fatto saggio troppo doloroso: or è tempo che sorga veramente la guerra tremenda del popolo». Un sogno che non potè avverarsi; e al quale egli stesso, in ciò diverso da Mazzini, sembrò rinunciare. Restava comunque, e passava alla storia, l'epica, disperata difesa di Venezia, fino all'agosto del 1849. E qui Paul Ginsborg ha scritto pagine che arricchiscono e rinnovano il vecchio studio di Trevelyan. Il mondo dei gondolieri, degli arsenalotti, dei clubs popolari, degli artigiani, lo slancio quasi allegro dei veneziani («Il popolo è lieto e cordialmente bestemmia i tedeschi». leggiamo nella relazione di un padovano), l'accorrere di uomini come Mordini. Bixio. Sirtori, Ulloa. il costituirsi del Circolo italiano e della Commissione militare, la sortita di Mestre, le strettezze economiche e il serpeggiare delle inquietudini sociali, sempre raffrenate dalla magnetica personalità di Manin, il bombardamento della città (e i cupi echi si sentivano anche alla Fenice, dove si rappresentava il Guglielmo Teli di Rossini), il colera, tutto questo esce dalla leggenda e dal mito, si fa storia precisa, documentata, appassionante. A. Galante Garrone Daniele Manin esule a Parigi '<