Macario e Gipo, gli ultimi eroi del teatro dialettale a Torino?
Macario e Gipo, gli ultimi eroi del teatro dialettale a Torino? Macario e Gipo, gli ultimi eroi del teatro dialettale a Torino? TORINO — Quattro forma-1 zioni stabili di teatro piemontese nella sola Torino; un i pubblico sicuro, che affolla le sale anche nei periodi in cui altre compagnie accusano la crisi; e una proliferazione di iniziative minori, spontanee, in tanti centri della provincia, dove i giovani tornano a raccogliersi intorno alla «loro» tradizione. Sono dati vistosi, che inducono a riflettere. Sono sufficienti per definire Torino «la capitale del teatro in dialetto»? Era il tema del dibattito che si è svolto l'altra sera al Circolo della stampa e che ha riunito insieme i due maggiori esponenti di questa rinascita, Macario e Farassino. Ma nemmeno dopo le due ore di discussione, in una sala gremita, si sono sciolti i nodi più difficili che il fenomeno nasconde. La rinascita del teatro piemontese è determinata da una realtà sociale che non investe solo il teatro; e non riguarda solo Torino e il Piemonte. Riaffiora, dappertutto, un bi sogno di recupero delle pro prie radici, il desiderio di sai vaguardare una identità profonda contro le tendenze sper¬ sonalizzanti del «villaggio totale» .postulato dai mass media. H movimento di riscoperta delle culture locali corre l'Europa, individua, una per una, le piccole patrie, ne valo\rizza tutti i segnali'di vita. Ma a Torino questi segnali I si rivelano più forti, perché più diretto è qui il confronto \ con le altre culture, e, soprattutto, con la civiltà egemone jdell'industria, che tende a livellare le differenze, spegnere i focolai di autonomia. La lingua locale ostica, quasi incomprensibile fuori dalla regione, portata a riflettere una società storicamente chiusa, riesce a dare, sul palcoscenico, risultati che supe rano i valori del dialetto. Macario è torinese per il mondo che esprime, i sentimenti di cui si fa portatore, quel savio Gianduia ridarello che va in cornando ormai da anni. Ma la sua maschera esce dal limite cittadino, diventa universale e comunicante, come tutte le grandi maschere del teatro italiano. Farassino è il personaggio del borg, sceglie un linguaggio rionale, che scende nel gergo, privilegia gli inizia¬ ti ed esclude gli altri. Ma di questo linguaggio si serve per comunicare una riflessione e una protesta che può essere comune all'uomo di tante altre città, «sema frontiere», come dice una sua canzone. Riuscirà, questo fenomeno, a resistere oltre i protagonisti di oggi? Il quadro, che potrebbe sembrare in luce, è ricco di ombre. Il teatro piemontese ha attori, ma stenta a trovare testi. L'iniziativa pubblica non può sostenerlo, e lo lascia quindi alla casualità delle scelte, non consentendogli, spesso, il rigore di cui avrebbe bisogno. Mancano i ricambi. Oggi Farassino annuncia una scuola, per formare i nuovi quadri; e la sua stessa compagnia, stabile da sette anni, con lo stesso regista, è una specie di scommessa sul futuro, per stabilire una tradizione di continuità. Ma sono sempre meno quanti parlano piemontese come lingua dei padri, e sempre di più quelli che oggi devono reimpararlo, come lingua di ritorno. E il teatro può nascere solo da una consuetudine con la vita: come Macario e Farassino dimostrano, cosi bene. g. c.
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