Dal Brasile non ritorna nessuno

Dal Brasile non ritorna nessuno NEL PAESE CHE SEMBRA FIGLIO DELL'AFRICA ANZICHÉ DELL'EUROPA Dal Brasile non ritorna nessuno Si è fermato l'afflusso dei grandi capitali dall'estero, nonostante il regime protezionistico in economia, il divieto di scioperi - Ma gli stranieri restano, specie i molti italiani che hanno avviato fabbriche di pasta, negozi, commerci S. PAOLO — -E' una leggenda che il Brasile sia la terra promessa. Il suolo è povero, ha solo minerali di ferro. Occorrono investimenti, capitali stranieri che stentano ad arrivare' mi dice il consigliere delegato della Pirelli Brasiliana, alzando la voce per coprire il fracasso del rotore. Ci siamo alzati in elicottero dalla terrazza dell'edificio, e San Paolo è sotto di noi, si stende a perdita d'occhio sui morros. le colline circostanti, come un dinosauro di cemento. Niente verde, una piantagione di grattacieli, e un traffico impazzito che scorre sulle soprelevate. Porse non sarà la terra promessa, ma come si fa a non credere al futuro di una metropoli (8 milioni di abitanti) che in trent'anni ha raddoppiato la sua popolazione? O alle prospettive di una Pirelli (14 mila dipendenti) che è la più grande delle consociate e ha un fatturato superiore a quello italiano? Basta guardare questa gigantesca cintura industriale, con le grandi fabbriche tessili, l'area della Volkswagen, la città universitaria, gli impianti sportivi, l'orizzonte grigio di smog, che fa di San Paolo la città col più alto indice di inquinamento, quasi un vanto di operosità, a sentirlo dire da loro. Dice un proverbio brasileiro: 'Il carioca si diverte, il gaucho governa, il paulista lavora». Ed è vero, perché quelli di Rio pensano solo al futebol quelli del Rio Grande del Sud a diventare governatori e presidenti, ma quelli di San Paolo lavorano sodo come a Detroit o a Torino. E forse è per questo che gli italiani ci si trovano a casa loro. Dice Pier Maria Bardi, direttore del Museo di San Paolo: 'No, non ho nostalgie dell'Italia. Vii>o qui da trentun anni. Semmai quello che invidio all'Itulia è il dibattito delle idee. San Paolo è Milano, ma senza la cultura di Milano. Questa è una città r r l n o i l o a à senza radici, senza tradizioni. Quando ci sono venuto io non esisteva una sola galleria d'arte Volevo dirgli che di quadri d'autore ne ho visti pochini, anche nelle case dei miliardari. Ma poi ho capito, passeggiando per il centro, dove sopravvive qualche testimonianza di architettura coloniale, che qui il genius loci tende a distruggere, non a conservare. C'è ancora uno spirito di frontiera, di provvisorio, di città non finita. Pur di rinnovarsi, il paulista è pronto ad abbattere, a buttar giù il vecchio senza badar troppo alle tracce storiche. Questa è la ragione per cui la sola nota caratteristica nel paesaggio cittadino sono le casette di stile portoghese rimaste in piedi (ma per poco) davanti ai grattacieli, simili a quinte di una scenografia. Oppure i pali della luce in legno, altissimi e sghembi contro il cielo, come nei vecchi film messicani su Pancho Villa. Del resto anche i grattacieli sono costruiti con materiali cosi scadenti e in tale economia, che un anno dopo sembrano già vecchi e malandati, eccetto che sull'Avenida Paulista, vanto e vetrina della città, una specie di Fif th Avenue di pionieri. Miserabili bar Il resto sono scatoloni grigi, e strade squinternate con facciate pittoresche di lancheonete, le miserabili tavole calde dove la gente di colore può mangiare una feijoada (piatto nazionale a base di fagioli) per pochi cruzeirós. L'impressione è che il Brasile sia rimasto figlio dell'Africa anziché dell'Europa: la stessa terra rossa, i grandi spazi, le chiome degli eucalipti, le fac ce dei discendenti di schiavi, il serpente annidato dietro il distributore di benzina, persino l'odore dell'aria, quell'odore di Terzo Mondo che sa di pollu- a e l o - tion e di fritto, di cattivi ottani e fumo di churrasco, lo spiedino di carne che si vende per strada. Di Portogallo ne è rimasto poco, se si tolgono le vecchie palazzine dei fazenderos, dell'epoca in cui tutta l'economia del paese era fondata sul caffè, e dall'Europa partivano tedeschi e polacchi alla conquista delle piantagioni. Ai brasiliani non piace essere chiamati sudamericani, e hanno ragione perché sono un continente a parte. Certo c'è nel loro carattere un entusiasmo, un calore umano che ha permesso loro di accogliere con simpatia le varie ondate di immigrazione. Quella italiana, in questa giungla d'asfalto che è San Paolo, è arrivata in gran parte nel dopoguerra, una manodopera qualificata, gente che aveva quattrini da arrischiare o idee da proporre, e che alla fine ha fatto fortuna. Ma è ripetibile l'impresa? C'è un metrò in costruzione, una rodovia (autostrada) interminabile. Eppure gli anni delle vacche grasse sembrano finiti anche quaggiù. Nonostante il regime protezionistico in economia, il divieto di scioperi politici, la messa fuori legge dei comunisti, la possibilità di licenziare un operaio sui due piedi (pagando un solo mese di indennità), la censura su radio e televisione, si è fermato l'afflusso dei grandi capitali che venivano dall'estero. Soltanto i giapponesi continuano a investire, e infatti le loro automobili stanno dilagando in tutta l'America Latina. La svalutazione incessante della moneta, che è arrivata al 45 per cento annuo, terrorizza chi ha denaro da far fruttare, anche se le banche offrono tassi altissimi di interesse. E il costo della vita sale vertiginosamente. «Lo sa perché costano tanto alberghi e ristoranti? — mi risponde Gregorio Consiglio che per anni ha diretto H'Còrriere Italo-Brasiliano —. Perché la mentalità è sempre stata quella del massimo profitto. Chi investe in un'impresa, qui vuol guadagnare subito e molto. I margini di guadagno sono più alti che in Europa, e poi è rimasta l'ideologia dell'immigrato: fare soldi e via!». Invece dal Brasile non torna nessuno. Gli italiani si sono ormai radicati, hanno fabbriche di pasta, negozi, commerci avviati e piccole industrie. La sede del loro circolo è nel grattacielo più alto della metropoli, quell'Edificio Italia che svetta nelle cartoline illustrate. Ma soprattutto godono di un prestigio e di una simpatia superiori che in qualsiasi altra regione. Infine non si interessano di politica, atteggiamento che il regime del generale Geisel apprezza molto. Con nostalgia Qui non si incontra, come a New York, il tassista di origine sicula. Perché l'italiano di San Paolo ha come minimo una pasticceria o un ristorante ben avviato, o la pizzeria popolare. Ma per vederne tanti assieme, di questi italiani, vado una domenica a Campinas, città universitaria con palme e grattacieli che somiglia a Abidjan, a cento chilometri dal capoluogo. L'occasione è una festa campestre, nella tenuta del signor Formaggioni, originario del Veronese, che a Campinas (seicentomila abitanti) ha messo in piedi una piccola industria meccanica. Ci sono le mogli brasiliane coi ragazzini, chioschi di bibite, il campo di calcio, arrosti e canzoni, il brasiliano dolce e musicale delle donne insieme al mazzolin dei fiori che vien dalla montagna. E c'è anche vino, oltre alle batidas di cocco, un Cabernet locale piantato da loro, mentre i ragazzi accordano gli strumenti per i sngscvdrsnnlsmptidiiu sambas, assolutamente estranei alle canzoni della nostalgia e ai «Viva l'Italia» che scoppiano qua e là. con il bicchiere alzato a brindare. Passano, nel cielo di fine inverno, nubi di calore e folate di carni alla brace, quasi un'aria di colonia, come se il Brasile fosse ancora terra vergine, coi suoi orizzonti sconfinati, un'avventura anche per loro, per i ragazzi nati e cresciuti qui, che un giorno si domanderanno cos'era l'Italia per i loro padri. Anch'io me lo chiedo, ascoltandoli cantare, perché gli italiani di San Paolo sono più di due milioni, tra oriundi e immigrati recenti, una cifra impressionante, una città grande come Roma dentro un'altra città che parla portoghese. «Ci veniamo in vacanza, ogni tanto — mi rispondono — ma dell'Italia oen abbiamo una vera nostalgia So che per qualcuno di loro c'è, all'origine, una ragione ideologica che li fa «nostalgici» d'altri tempi. Ma per la maggior parte di loro credo sia stata, a farli restare e a lavorare con entusiasmo, la grande disponibilità di questo popolo, forse l'unico al mondo che non ha pregiudizi razziali, e che non discrimina sulla base delle nazionalità di provenienza. In cambio, gli italiani si astengono dal far politica, o dall'occuparsi di certi aspetti sgradevoli del regime. A esempio, vengo a sapere che nel gergo della polizia si chiama 'Ostia sagrada» una scarica di magnete sulla lingua durante gli interrogatori. «Ma è ancora in uso?» chiedo. Sorridono evasivi, poi uno mi avverte: «Lei ne sentirà di tutti i colori. Ma l'unica verità, glielo dico io, è in questo vino!». Certo, una risposta molto italiana. Carlo Castellarsela

Persone citate: Carlo Castellarsela, Geisel, Gregorio Consiglio, Pancho Villa, Paulista, Pier Maria Bardi, Veronese