L'ultima battaglia di Giovanni Giolitti

L'ultima battaglia di Giovanni Giolitti PERTINI LO RICORDA A CUNEO L'ultima battaglia di Giovanni Giolitti «La vita politica è una gran brutta vita Io vi entrai senza volerlo; ma dovessi nascere un'altra volta, piuttosto mi farci frate; e sono molto contento che nessuno dei miei figli, né dei nipoti sia entrato o accenni minimamente al proposito di entrarvi». Così Giovanni Giolitti scrive il 30 aprile 1927 al suo fedelissimo Gamillo Corradini. il sottosegretario all'Interno dell'ultimo difficile e contrastato governo, il «trait d'union» con Filippo Turati e col versante del socialismo riformista. Aprile 1927. Siamo ormai alle soglie della scomparsa del grande statista, ottantacinquenne, tagliato fuori da tutto e da tutti, quasi isolato nella solitudine della sua Cavour, dove lo raggiungono solo gli amici più fidati, osservati con diffidenza dalle autorità fasciste locali, quasi sempre schedati. Ancora deputato, ma di un Parlamento esautorato, imbavagliato, che si avvia al suo neanche glorioso tramonto In contrasto col fascismo trionfante, ma in dissenso non meno radicale con l'antifascismo ufficiale che ha consumato i suo estremo sforzo nella vicenda dell'Aventino, da lui sempre implacabilmente combattuta Giolitti è portato a ripensare - lui uomo di azione e di amministrazione, di schemi semplici e quasi elementari, di innata montanara saggezza, sospettoso verso intellettuali e intellettualismo — la portata della sua azione storica, il senso profondo della sua politica: fra qualche mese gli giungeranno le pagine della Storia d'Italia di Benedetto Croce ed egli si chinerà, commosso. »u quell'interpretazione dell'età giolittiana che andava tanto oltre la misura della sua politica, che quasi illuminava al protagonista le linee di un'azione a lui stesso rimasta in parte oscura o di difficile comprensione. «Ho letto il tuo libro molto lentamente, per i molti punti che obbligano alla meditazione, e con interesse veramente eccezionale»: risponderà Giolitti a Croce. E il filosofo commenterà vent'anni più tardi: «Uomo di pratica e di azione, non si era reso conto di tutte le condizioni e di tutta la motivazione ideale, intellettuale e morale dell'opera sua». Il tramonto di Giolitti è di un'estrema, sobria malinconia: in linea con tutta una vita che ha rifuggito dall'enfasi e dalla declamazione Ormai ogni speranza si è dissolta, in quella primavera del 1927. Sia la speranza di contenere il fascismo nell'alveo delle istituzioni, coltivata anche dal suo interlocutore, l'ex-sottosegretario Corradini cui si attribuiva da più parti la colpa di avere aperto alle squadracce fasciste i depositi di armi dell'esercito nel biennio '20-'21: sia la speranza di allontanarlo dal potere, strappato per gli errori e la pigrizia degli altri, costruendo una soluzione alternativa che, agli occhi di Giolitti. era stata bloccata dal comportamento «extra-parlamentare» dell'opposizione ritirata sui colli del l'Aventino. «Siamo in mezzo a due anor malità, una violenta, l'altra (di ciamo così) allegra»: aveva scritto Giolitti sempre a Corra dini il 14 aprile 1925, e cor. qualche ingiustizia, proprio nel momento del supremo sforzo di Giovanni Amendola di richiamare sulla gravità della situazione illegale del fascismo, ormai diventato regime, la monarchia sorda, vacillante e codarda. L'anormalità violenta era il fascismo, quella allegra l'Aventino. E con un'intuizione da politico di razza, qual era. aggiungeva: «Quel che è evidente è l'aumento del comunismo, poiché la francescana rassegnazione dei socialisti non ha presa sulle masse, lo si è visto nelle votazioni fra gli operai di Torino». Non a caso, ai suoi occhi, il piccolo gruppo di Gramsci era rimasto seduto con lui sugli scranni di Monte citorio. resistente alle provoca zioni e alle insolenze dei se guaci di Farinacci. «Se la Camera si riunirà a maggio — è un'annotazione della stessa lettera, pubblicata a suo tempo da Gabriele De Rosa — e non ne sono ancora persuaso, verrò a Roma unica mente affinché non si creda che io pure sia andato sull'A ventino; ma senza alcun desi derio di assistere a una vera pa rodia di Parlamento». E l'il maggio aggiungeva: «Fra il governo che ha soppresso la li berta di stampa, e l'opposizio ne che ha soppresso la tribuna parlamentare, un povero diavolo, che abbia la disgrazia di avere conservato un po' di buon senso, non ha altra risorsa che starsene in campagna, limitandosi alla parte di osservatore» sdppodsciovdbnvcMzdglpev a i i Per fortuna sua e dell'Italia, il vecchio Giolitti non sarà solo osservatore, non condividerà le viltà e i silenzi di tanta partedei liberalismo italiano, ricambiato con feluche e dignità senatoriali per l'abbandono dei vecchi princìpi Proprio l'uomo che si era illuso di «domare» Mussolini e di costituzionalizzare il fascismo testimonierà. dentro l'aula ormai «sorda e grigia», l'ultima resistenza della democrazia liberale, quel «non possumus» che sarà tanto più solenne quanto più scabro e severo. Il punto di rottura definitivo, almeno nella storia degli annali parlamentari, si può collocare nella seduta del 15 novembre 1924. Non solo il governo ha difeso e rivendicato l'illegalismo crescente dopo l'assassinio di Matteotti, ma ha soppresso, con decreto reale, la libertà di stampa. «Una libertà — incalzerà Giolitti alla Camera — che non è mai venuta meno nei momenti più difficili della nostra storia, da Novara a Villafranca. da Aspromonte a Mentana, da Custoza a Lissa». La violazione formale e clamorosa dello Statuto — che per un piemontese come Giolitti voleva dire ancora qualcosa — non consentirà più gesti di attesa o di prudenza verso il capo del governo prossimo a diventare duce del fascismo Neanche l'odio giolittiano verso la proporzionale basterà a superare quell'abisso. Allorché viene in discussione, nel gennaio 1925. la nuova legge elettorale, pur fondata sul ritorno al collegio uninominale da lui tante volte invocato. Giolitti aderisce all'ordine del giorno Orlando, contrario all'iniziativa governativa, sostiene con la dignità che gli è propria il battibecco con Mussolini (il capo del fascismo provava sempre un senso di imbarazzo e di inconfessata infastidita deferenza verso l'ex-presidente del Consiglio). «Vengo a scuola da Lei in fatto di elezioni!» lo apostrofò Mussolini. E il vecchio Giolitti. di rincalzo: «Troppa modestia! Perché le elezioni fatte da lei hanno portato qui una maggioranza che io non mi sono mai sognato di avere». IJ 28 novembre 1925. proprio lo stesso giorno del commiato di Albertini dal Corriere. poche settimane dopo il soffocamento della Rivoluzione liberale di Gobetti. Giolitti resta seduto, col manipolo dei suoi amici liberali-democratici, quando i fascisti si alzano per l'omaggio ai caduti, in cui causa nazionale e causa fascista sono indebitamente confuse. E ancora tre anni più tardi, nell'imminenza della morte, il 16 marzo 1928. Giolitti raggiungerà Roma per votare contro il disegno di legge di riforma della rappresentanza politica, l'aberrante proposta che attribuiva esclusivamente al gran consiglio del fascismo il diritto di designare i candidati per una lista unica di deputati, fine di ogni opposizione, tramonto di ogni dialettica politica. «Questa legge segna il decisivo distacco del regime fascista dal regime retto dallo Statuto»: sono parole di Giolitti che risuonano in un'aula ormai asservita, dominata dalle ombre di Matteotti, di Amendola, di Gobetti, vittime dell'intolleranza fascista. E Togliatti, tanti anni più tardi, nelle osservazioni sottili che dedicherà al principio del '50 a Giolitti. sottolineerà l'importanza di quel termine «decisivo». «Quello che salva questa dichiarazione: il distacco era avvenuto da tempo» Anche di questo Giolitti. l'ultimo e più malinconico, si parlerà oggi a Cuneo, davanti al presidente della Repubblica, nel convegno di studi giolittiani promosso da un complesso di enti piemontesi, fra cui predominante quel Consiglio prò vinciate della città che egli presiedette per tanti decenni e da cui si dimise nel dicembre 1925. quasi alla vigilia della partenza di Gobetti da Torino «Grandezza e decadenza dello Stato liberale»: come si intitola non a caso un libro di studi giolittiani curato per l'occasione dall'animatore di questo convegno. Aldo Alessandro Mola. E la presenza di Pertini avrà un significato che andrà oltre il cerimoniale Quando Giolitti morì, nelle molte polemiche che la sua scomparsa suscitò nelle file dell'antifascismo militante a Parigi, la sola voce di saggezza e di giustizia, contro i troppo facili schemi del «ministro della malavita», fu quella di un socialista amico e compagno di battaglia di Sandro Pertini. Pietro Nenni. Sul quotidiano della sera Le Soir. Nenni tracciò un profilo venato di umana simpatia e di affettuosa comprensione: luci e ombre di un'esperienza politica, che il grande giornalista sapeva tracciare in poche cartelle E Pertini. turatiano da sempre, non mancherà di ricordare, ascoltando gli oratori di Cuneo, la lettera di Anna Kuliscioff al suo Filippo, il 23 marzo 1903: «La tua separazione da Giolitti assomiglia a quella di due amanti che si danno già appuntamento sin da ora». Giovanni Spadolini