Pittori della macchia sulla scena di Parigi

Pittori della macchia sulla scena di Parigi I «TOSCANI» AL GRAND PALAIS Pittori della macchia sulla scena di Parigi «Macchiatoli». É' una parola che i francesi non riescono né a tradurre né a pronunciare. «Tachistes» (in francese macchia si traduce in tache) indica una scuola artistica radicalmente diversa. Impronunciabile il nome, per un secolo e più la critica francese ha ignorato la scuola livornese-fiorentina che si chiamò tale, alle origini dello Stato unitario, nel 1862. per reazione polemica al giudizio derisorio e ironico di un quotidiano torinese. E prima che Torino perdesse, a vantaggio di Firenze, il ruolo di capitale. E' stato un contenzioso di silenzi o di equivoci, che la mostra al «Grand Palais». inaugurata due settimane fa. con quel titolo semplice e scabro. «I macchiaioli peintres en Toscane après 1850». ha chiuso una volta per sempre. Il capitolo della pittura macchiaiola si innesta nel più vasto capitolo delle relazioni culturali fra l'Italia e la Francia moderne, coi pesanti e difficili paragrafi del «dare e avere», preziosi per i nazionalismi di entrambe le sponde. Fino al 1920. la corrente macchiaiola fu pressoché sconosciuta agli stessi italiani, almeno alla cultura ufficiale. Fattori morì povero nel 1908. in polemica col ministero della Pubblica Istruzione che stentava a pagargli i grandi quadri di battaglie, che spesso non erano i suoi migliori; Lega e Signorini non erano usciti dai limiti di un paesaggio municipale che veniva a torto scambiato per dialettale, arcigni i musei, diffidenti i conservatori del patrimonio artistico che solo allora veniva ordinato e catalogato, scarso e svogliato il mecenatismo privato, rarissimi i Diego Martelli, contemporanei o di poco postumi, che avessero incoraggiato quegli artisti romantici, sfortunati e «boulevardiers». La storia del «Caffè Michelangelo» non era uscita dalle storie di una certa Firenzina. sempre incline al riduttivo, con una punta di ostentazione e q uasi d i voluttà. Il nazionalismo politico non ha mai mancato nel nostro Paese di avere riflessi sul clima culturale. E gli orgogli degli Anni Venti, destinati a culminare nelle magniloquenze del fascismo, portarono a una rivalutazione forzata del fenomeno macchiaiolo. contrapposto a quello impressionistico, con una mancanza assoluta di senso delle proporzioni e stavolta di senso del ridicolo. Cominciò la guerra delle date. Una certa mostra della pittura fiorentina nel 1861 — mostra celebrativa ed eclettica, dove i macchiaioli appena albeggiavano — fu contrapposta, nella battaglia delle genealogie e delle cronologie, alla prima timida mostra a carattere privato degli impressionisti tenuta a Parigi nel 1874 presso i saloni del fotografo Nadar. Tredici anni di distacco, si disse: dimenticando quello che avevano fatto nel frattempo i Manet e i Monet e Cézanne giovane. II veto del salone parigino all'esposizione della Colazione sull'erba di Manet nel 1863 portò quasi a dimenticare l'esistenza di quel quadro-pilota, o a far scambiare il principio grandioso della «luce», ispirante la rivoluzione degli impressionisti, col principio rattenuto della «macchia» che rifletteva una visione della realtà più casalinga e domestica, e in ogni caso più solida e tradizionale. L'unica voce di equilibrio e di saggezza, in quegli anni, fu la , voce di Emilio Cecchi. Critico non professionale, e quindi grandissimo. Cecchi sottrasse la pittura macchiaiola alla polvere degli archivi ma si rifiutò di metterla in competizione con quella francese. Ne intuì le grandezze e insieme i limiti, che la mostra del «Grand Palais» conferma con assoluta, puntigliosa fedeltà. Non ricorse alla contrapposizione fra Parigi e Firenze, ma guardò ai succhi culturali di una Firenze dove vivevano ancora Capponi e Tommaseo, quando i macchiaioli si costituivano in piccolo gruppo di avanguardia, e dove lievitava un'atmosfera di apertura all'Europa che aveva le sue radici nell'esperienza dell'Antologia di Vieusseux Fissò i rapporti, che erano stati stretti, fra arte francese e arte italiana; dimostrò quante volte i Fattori e i Lega e i Signorini e i De Tivoli e i Cecioni (senza contare De Nittis o Boldini) fossero stati ospitati nei salons parigini, sottratti al rigore pietrificato della tradizione accadejpjca. La reazione francese alle deformazioni dell'enfasi nazionalista italiana finì per portare a una cancellazione del nome «macchiaioli» dalle storie dell'arte che passavano attraverso il filtro, decisivo, di Parigi. Più di trent'anni sono stati necessari per comporre la querelle, per risolvere la vertenza con l'armistizio del «Grand Palais». Quando il ministero per i Beni Culturali, appena ai suoi albori, decise di organizzare — fine '75 — la grande mostra dei macchiaioli al Forte Belvedere di Firenze, la meta di una sosta a Parigi rappresentava molto più una speranza che una certezza. Ricordo quanti ostacoli burocratici e quante resistenze di routine dovetti superare per realizzare nei tempi convenuti l'esposizione di Corot alla romana Villa Medici; confesso che il mio obiettive segreto era quello di favorire il capitolo delle reciprocità, indispensabile nell'arte non meno che nella diplomazia. Rispetto agli oltre trecento pezzi della mostra fiorentina, quella parigina è stata opportunamente asciugata e ridotta. 146 quadri, e venti di meno sarebbe stato ancora meglio. Disposti con intelligenza, con misura, senza ostentazioni retoriche. Un catalogo non grandioso, ma esauriente e completo: «Fattori a Livorno». «La scuola di Castiglioncello». «La scuoia di Piagentina». Sottolineate le radici locali; riscoperto il paesaggio toscano; rivendicati — come dice André Chastel — «/ calmi riti della vita contadina e borghese, i muri bianchi, le mattonelle, i pergolati, il silenzio». La prefazione di un conservatore di museo francese. Anne Distel. che segna correttamente intrecci e confini fra macchiaioli e impressionisti; un'introduzione più ampia del massimo nostro specialista dmacchiaioli. Dario Durbè (e contemporaneamente esce a Parigi una poderosa monografia dello stesso Durbè su / macchiaioli. in collegamento fra le edizioni Vilo e le edizion a l i e a / o i De Luca, che aggiunge solo, come variante alla testata discreta della mostra, il sottotitolo «Maftres de la pemlure en Toscane au XIX Siede » j. Che fossero maestri, l'esposizione del «Grand Palais» lo dimostra. Maestri nella fedeltà artigianale ad un mestiere sentito con dedizione assoluta, e fuori dagli schemi virtuosi del purismo artistico da poco debellato in Toscana; maestri nel raccordo fra società e arte, nella trascrizione fedele dell'etica risorgimentale, in una chiave, anche quella, dimessa, schiva, non urlata e non gridata. Madame Giscard. che accompagno durante la visita, si sofferma, intenerita, davanti al Canto dello stornello di Silvestro Lega. E quando affiora, dalla parete, una piccola tavola di Fattori su Soldati francesi a Firenze, l'orgoglio gallico si stempera in un sorriso di amicizia. L'Assalto alla Madonna della Scoperta di Fattori scontento e crucciato non riesce ad allontanare lo sguardo, né di Madame Giscard né delle autorità di governo francesi, da quelle minuscole marine di Castiglioncello. e non solo da quelle di Fattori (quali scoperte, ancora. Borrani e Sernesi ed Abbati!), in cui il brivido della pittura macchiaiola si avverte con un timbro più intenso. Certo più intenso di quanto si rifletta nella definita misura borghese della «Scuola di Piagentina»: più compiuta ma certo più fredda e più esterna. Chastel. che è critico fine e soprattutto non manca di ironia, ha osservato, nella prefazione a Durbè. che col 1860 la corrente macchiaiola esce allo scoperto col grido «La Toscana farà da sé». Quasi parafrasi del non fortunato grido di Carlo Alberto, rapportato all'Italia dodici anni prima. E certo qualcosa di quarantottesco, di volontaristico, anche di barricadiero rimane in questa pittura che dissolve, in nome della «macchia», tanta parte dei canoni tradizionali, che rovescia l'accademia, che spezza la spirale del neo-classicismo, che esce risolutamente dall'Arcadia. In una misura, sempre, toscana e italiana. Nel ricupero di una più lontana tradizione (Pontormo o Rosso Fiorentino, per esempio); nella fedeltà ad un paesaggio, morale prima ancora che naturale, sempre delimitato e circoscritto. Fra macchiaioli e impressionisti, corre in sostanza la stessa differenza che poteva correre fra Firenze, capitale accigliata del piccolo Regno d'Italia, e Parigi, capitale un po' impazzita del Secondo Impero. Giovanni Spadolini Giovanni Fattori: «Diego Martelli a Castiglionccllo» (1870 circa) Milano, Collezione Jucker