In gondola con l'americana ultima dogaressa di Venezia

In gondola con l'americana ultima dogaressa di Venezia Peggy Guggenheim, 80 anni, musa dell'arte In gondola con l'americanaultima dogaressa di Venezia VENEZIA — Ottantanni compiuti quasi in silenzio, in una città che, eccettuati tre o quattro mesi all'anno, e una città del silenzio, come avrebbe detto il ciarliero Gabriele D'Annunzio. Questa ottantenne piena di fascine discreto, un po' stanca, ma ancora mordace, se vuole, ho avuto il destino d'incontrarla, o meglio, incrociarla, prevalentemente sull'acqua. Lei, rilassata e serena, a bordo di una delle ultir,.e, forse l'ultima, «gondola de casada», cioè una gondola personalizzala, più ricca e addobbata delle altre, con un gondoliere familiare, per la padrona, come poteva esserlo, per un granduca russo, uno chaffeur prima della Rivoluzione; io, invece, sul mio barellino grande come un accendisigari, sballottato dal moto ondoso del Canal Grande, una mano sul volante, l'altra impegnata a togliermi il berrettino di tela per ossequiare quella che è stata chiamata, con un po' di magnitudine, l'ultima dogaressa. Normalmente, non ossequio nessuno, ma, insomma, una gentile signora americana, che è anche una smagliante pagina di storia dell'arte moderna, vale un omaggio, e magari, se fossi un prelato, anche una Messa patriarcale. Invece, Peggy Guggenheim, poiché di lei stiamo parlando, da questa città, dalla mia città, Venezia, ha avuto quasi soltanto scrollatine di spalle. Peggy, furibonda amica della grande arte moderna, non della piccola, tant'è vero che negli ultimi anni ha chiuso la porta in faccia ai modesti mistificatori che in nome della sperimentazione si spacciano per eredi di Picasso o Chagal, è stata una creatura volitiva e vibratile, stizzita e generosa, passionale e impervia. Negli Anni Cinquanta, la vidi anche fuori dalle vie acquee, magari attraversare piazza San Marco: un passaggio sulfureo, di una donna di piccola statura, appena aduggiata da un naso un po' incongruo, nonostante un intervento chirurgico riduttivo, ma piena di eccentrico charme, con orecchini forse disegnati da un grande pittore, abiti di una vaga e ondeggiante ariosità, e, mi ricordo bene, sandali di cuoio giallo dalle punte arricciolate ben più delle babbucce di Allah. Persino una città estivamente multicolore e mistilingue come Venezia, intorpidita dall'elevato grado di umidità, una città, direi, igroscopica come poche al mondo, e quindi con abitanti spesso liquefatti e disinteressati a tutto come messicani onorari, al suo passaggio sembrava per un attimo ridestarsi. Sostavano gli indigeni, si giravano persino a guardarla, mentre gli stranieri si bloccavano magnetizzali davanti a quella strana donna, più forestiera ma anche tanto più veneziana di tutti. Acquattata a Ca' Venier dei Leoni, un palazzo basso e tronco, rimasto inconcluso come tante imprese veneziane, che lasciavano presagire chissà che cosa e poi si richiudevano in se stesse come chiocciole o «bovoli», come si dice da queste parti, Peggy Guggenheim è sempre stata dispendiosa e avara. Ha elargito se stessa con la naturalezza di una ragazza americana del primo Novecento, quando da noi tutto era Patria e Famiglia, il trono pareva saldissimo, e il resto, sotto di esso, pur sgranandosi, fingeva di essere monolitico. Conobbe, biblicamente o no, artisti di prim'ordine, da Klee a Ernst, che fu anche uno dei suoi mariti (il terzo, in ordine di tempo, se non sbaglio), fino a Pollock, fino a quel geniale massacratore di se stesso che fu il veneziano Tancredi, che una volta, pur avendo bevuto qualche bicchiere oltre il necessario, o forse proprio per questo, mi batté a boccette in un biliardo dalle parti di San Pantalon. Costruì la più bella collezione europea d'arte moderna, pagando di tasca sua, istigando, musa inquieta o forse soltanto innamorata d'arte, persa dietro a sogni che non si possono comperare con i soli quattrini, se non vengono coltivati e inseguili lungo le strade del mondo, come lei fece con Mondrian e Calder, istigando, si diceva, il fior fiore degli artisti di questo inquieto e vanesio Novecento. Ho il piacere di non conoscerla di persona, e lo dico senza vanità: mi attrae parlare della gente con la quale non ho debiti d'amicizia, e possibilmente dirne il bene o il male che penso. Certo, oggi, se fossi chiamato davanti a un giudice qualsiasi, di mezza tacca e terrestre, oppure supremo, da Giudizio ultimativo, la difenderei con le scarse energie che ho. Perché Venezia, sudaticcia e poco misericordiosa, ben ripa- gala dai turisti che vi transitano con tutti i loro canaglieschi barattoli di sardine e di birra scaricati sui masegni di piazza San Marco, come estemporanee e maleodoranti decorazioni, stenta a far propri gli immigrati. Questa città, che qualcuno dice internazionale, è appunto chiusa come un «bovolo»: fa gli affarucci suoi, ma difficilmente tollera, se non, ahimé, con mezzo secolo di ritardo come stiano oggi sulla loro scomparsa, gli immigrati stanziali, come il geniale Baron Corvo, scrittore inglese spericolato e folle, che, più che di pazzia e polmonite, in realtà morì di non ricambiato amore per la città lagunare. La signora Guggenheim, a Venezia, ha pure qualche amico: Egidio Costantini, ovvero il maestro della Fucina degli Angeli, ostetrico di sculture in vetro firmate in compagnia di Picasso, Ernst eccetera, i pittori Vedova e Santomaso, e, credo, lo storico dell'arte Mazzariol, oltre a pochi altri e radi fedeli. Una incredibile collezione d'arte come quella raccolta da questa sgranatissima e geniale madama, alla quale Giovanni Comisso, molti anni fa, sul «Mondo» di Pannunzio, dedicò pagine a ruota scioltissima, Venezia non sa dove piazzarla. Capite? Peggy, anni fa, decise di cederla a questa città, che delle arti parrebbe un privilegiato ombelico. Ma l'ombelico sussulta, il ventre di Venezia espurga la regalia, perché il Comune dovrebbe pagare una tassa, irrisoria di fronte al valore di ciò che la ingemmerebbe, sui De Chirico, i Manzù, i Giacobetti, i Delvaux. i Magritte, su tutto il firmamento di un'arte folgorante e faticata, su travaglio di tre quarti di secolo. Poi, sinceramente, non so cose in termini legali, e non importa, penso, né a me né a voi. Importa che una donna straordinaria, della generazione degli Hemingway e degli Scott Fitzgerald, ami questa città agra e invitta, forse non per merito suo, guadagnandosi il nome di dogaressa laddove i dogi dormono da secoli il sonno dei giusti, e i loro figli fanno di tutto per sbracarsi più o meno tetramente. Carlo Della Corte Peggy Guggenheim mentre osserva un'opera moderna in una galleria d'arte

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