Il successo (interiore) di chi scala una montagna di Massimo Mila

Il successo (interiore) di chi scala una montagna DISCUTIAMO L'ALPINISMO, I SUOI MOTIVI CULTURALI E SPORTIVI Il successo (interiore) di chi scala una montagna Su Stampa Sera di lunedi 21 agosto. Massimo Mila aveva scritto un articolo tentando di spiegare « perché » si va in montagna, anche correndo i rischi di un incidente, di una caduta, della morte. Decine di lettori hanno scritto; molti parenti di scomparsi in sciagure alpinìstiche hanno ringraziato Mila per aver loro permesso di comprendere « ciò che anche per me costituiva in parte un enigma », o per averli aiutati a considerare la passione per la montagna <i non soltanto un motivo di pericolo, ma una profonda necessità di ricerca e maturazione ». Hanno scritto anche altri lettori, quasi rimproverando a Mila di aver dato dell'alpinismo sì una spiegazione culturale (e mistica), ma di averne forse trascurato la parte sportiva. Proprio questo è il tema dell'articolo di Massimo Mila che pubblichiamo oggi. Nella relazione introduttiva d'un convegno internazionale sull'alpinismo moderno, che si era tenuto a Torino nell'autunno 1977, Reinhold Messner s'era provato a determinare le ragioni e le regole dell'alpinismo. Messner non è solo quello scalatore fenomenale, che unico al mondo ha al proprio attivo quattro ottomila, di cui uno ripetuto (e la seconda volta da solo), ma è una testa che pensa, e scrittore (in lingua tedesca) che sa il fatto suo. Proponendosi di definire la natura d'un «alpinismo sportivo», ma «antieroico» («L'alpinista è un uomo normale, del tutto normale»), Messner andò ben vicino ad intuire quell'identità di pensiero e azione, quella coincidenza del conoscere col fare, nella quale consiste il privilegio di questa attività, come qui si è tentato recentemente di spiegare («Alpinismo come cultura», in «Stampa Sera», 21 agosto). Un'avventura romantica Nell'azione alpinistica egli indicava tre momenti fondamentali, enumerandoli forse in ordine crescente di valore. «Il primo — egli diceva — è il sentimento del successo, il secondo l'avventura romantica, e il terzo la visione». Mentre l'ultima componente solleva l'alpinismo quasi ai confini d'una forma di rivelazione («Questa visione è ciò che ci fa capire noi stessi, ci fa riconoscere internamente, in relazione col mondo, con tutto quello che generalmente ci sia attorno»), e la seconda — l'avventura — coglie l'aspetto più evidente dell'azione alpina, la prima — che del resto Messner poneva forse come il gradino più basso della scala — potrebbe avere l'aria di accentuare un po' troppo l'aspetto sportivo dell'alpinismo: «Cercando il successo si perviene alla competizione». Ora non s'intende qui mettere in dubbio la presenza dell'elemento competizione, innalzato a importanza determinante dal celebre libro di Edouard Frendo, Alpinisme et compétition. Chi scrive può testimoniare di scienza propria come la competizione prosperi anche ai livelli più bassi dell'abilità alpinistica. Passare dove un vostro amico non è riuscito, o arrivare al rifugio dieci minuti prima di lui — c'è poco da dire — fa piacere. Tuttavia il fatto che questo sentimento esista non vuol dire che sia elemento essenziale e qualificante dell'alpinismo, come asseriva con provocatoria esagerazione il Frendo, in polemica col vacuo spiritualismo di certe interpretazioni romantiche. Che l'alpinismo contenga mche aspetti sportivi di competizione è innegabile, ma sarebbe un bel disgraziato chi andasse in montagna unicamente per superare i colleghi. Senza cercare applausi Ciò nonostante l'intuizione di Messner è giusta, e va accolta come un utile correttivo, o per lo meno una necessaria integrazione all'interpretazione dell'alpinismo come cultura. L'alpinismo è, sì esplorazione e perciò, come conoscenza della terra attraverso l'azione, si apparenta alla geografia, tuttavia resta un fatto che l'alpinismo non si esaurisce interamente nell'esplorazione e perciò non è soltanto geografia. Marco Polo non era un alpinista, e tanto meno lo erano Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci. 11 gusto dell'esplorazione c'è sempre nell'alpinismo, come una molla ineliminabile, anche quando non viene esplicitamente ri¬ conosciuto in interiore homine. Successo vuol dire semplicemente proporsi una mèta e raggiungerla. Voler fare qualche cosa e riuscirci. Per intima soddisfazione propria, non per ottenere l'applauso della folla. Un paio di esempi, uno ipotetico, l'altro tratto dalla nostra realtà quotidiana, chiariranno l'idea meglio di qualunque ragionamento. Immaginiamo il solito caso di Robinson Crusoe, sbattuto dal naufragio sopra un'isola deserta. E immaginiamo che il nostro Robinson Crusoe sia un alpinista, e che l'isola sulla quale la tempesta lo scaglia sia piena di belle montagne. Dopo alcune settimane o mesi passati ad assestarsi, costruirsi la capanna, piantare un orto, assicurarsi provvista di legna e di selvaggina per mezzo di trappole abilmente nascoste, insomma, quando si sarà messo a posto, che farà il nostro Robinson Crusoe? Ma naturalmente si dedicherà a quelle montagne che aveva visto subito, fin dal suo primo burrascoso arrivo, ma lì per lì aveva dovuto accantonarne la visita, pressato com'era dalle più elementari esigenze dell'esistenza. Ma ora ecco che ne comincia l'esplorazione sistematica, partendo di buon mattino dalla sua capanna e rientrando la sera, o magari bivaccando in giro, se è il caso. Da una punta ne scorge altre, vede le valli interposte, battezza le montagne man mano che le sale — Picco della Scoperta, Punta Torino (o Milano, o Moncalieri o Abbiategrasso), a un'altra dà il nome della sua ragazza o moglie perita nel naufragio —: insomma, piano piano si viene rendendo conto del sistema corografico di quell'isola dove ormai ritiene che dovrà finire i suoi giorni, ne conduce a termine l'esplorazione. Quando torna alla sua capanna, la sera, dopo avere scalato una nuova cima, è contento, soddisfatto di sé e della vita: è su di gin. Perché? Perché ha avuto successo. Nessuno saprà mai che lui ha salito quella punta. Non importa: lui è contento lo stesso, è riuscito in quello che si proponeva. Qualche volta succederà pure a lui, come a tutti, che fa fiasco: un passaggio troppo difficile che non riesce a superare, un errore di itinerario, o magari semplicemente il brutto tempo, un temporale, condizioni sfavorevoli. Quella sera il nostro uomo torna alla capanna con un diavolo per capello: sbatte le stoviglie che si è intagliato nel legno, tira un calcio al gattone selvatico che è riuscito a addomesticare, insomma, gli girano maledettamente le scatole. Perché? Nessuno saprà mai che su quella montagna ha fatto fiasco. Non importa: non ha avuto il Successo. Se fallisce il tentativo Veniamo alla nostra esperienza quotidiana d'alpinisti grandi o piccoli che siamo. Tutti sanno che fa più piacere riuscire sulla Tour Ronde che fallire sul Monte Bianco. Meglio il successo su una montagna modesta che un fallimento sulla Nord dell'Eiger o delle Grandes Jorasses. Chi scrive ha avuto l'impudenza di imbarcarsi in tarda età in viaggi organizzati, diciamo pure piccole spedizioni su montagne lontane, in Caucaso, nel Nepal, in Afghanistan, in Africa, nelle Ande. Ha tentato montagne di 6000, di 7000 metri, e le ha fallite quasi tutte, come la reclame del callifugo Ciccarelli, «poveretto, come soffre!». Suppongo che Messner si riferisse anche a me quando disse, in quella relazione: «Non ho mai visto delle persone tanto sfinite come quelle che tentavano di fare un 6000 in Nepal, che erano alpinisti medi». Bene, da un punto di vista di prestigio mondano, è ben più importante avere toccato i 6000 metri nelle Ande, e averli superati alquanto nell'Hindukush, che non fare qualche modesta punta in vai di Susa. Se il successo consistesse nella gloria mondana d'essere ammirali, complimentati, magari invidiati e intervistati alla radio e alla televisione, nessun dubbio che il tentativo fallito nelle Ande o nell'Himalaya serve benissimo allo scopo. Cosa importa di quei cinque o seicento metri che ti man¬ cavano per arrivare in punta? Invece si torna con l'amaro in bocca, perché ti è mancato il Successo. Per contro, se me ne parto tutto solo una domenica per andare alla Pierre Menue o alla Rognosa d'Eliache, e ce la faccio, ritorno a casa soddisfatto, sicuro di me e chiedo se il mondo è da vendere: ho avuto Successo. Volevo fare una cosa e ci son riuscito. In termini di pubblicità mondana è un successo da ridere. Bella forza!, tutti son buoni ad andare alla Pierre Menue. Non importa. Quella interiore euforia non me la toglie nessuno. Sicché Messner ha perfettamente ragione: il Successo è una componente ineliminabile ed essenziale dell'alpinismo. Ma c'è successo e successo. Come c'è l'Amor sacro e l'Amor profano, così c'è un Successo sacro, intrinseco all'uomo e immanente, e un Successo profano, tutto esteriore e ciarlatanesco. Naturalmente è il Successo sacro, cioè serio, quello che conta. Massimo Mila

Luoghi citati: Abbiategrasso, Afghanistan, Africa, Milano, Moncalieri, Nepal, Susa, Torino