LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio di Vittorio Gorresio

LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio XI Fu questo il momento nel quale una terza bomba, caduta a una trentina di centimetri da me, mi investiva in pieno producendomi le trecentocinquanta ferite da schegge che mi offesero tutto il lato destro dalla spalla al tallone». Ebbe recisa l'arteria poplitea. Fortuna che erano bombe leggere, del tipo che i soldati chiamavano balilla. Esplodendo facevano un enorme fracasso e la vampa accecava, ma il loro involucro metallico sottile si frantumava in schegge minutissime quasi incapaci di offese a largo raggio. Più disgraziato del viceré fu il povero chierico che stava dietro l'abuna reggendogli aperto l'ombrello sul capo: colpito in pieno da una balilla cadde morto e anche l'abuna restò ferito, come il generale biotta comandante dell'aviazione, e molte altre persone nel gruppo delle autorità, pare una cinquantina. Io stavo un po' discosto, casualmente al riparo di una colonna con il conte Gherardo della Porta, commissario di governo per Addis Abeba, ed insieme contammo diciotto scoppi di bombe. Poi cominciò la fucileria da parte dei nostri, con qualche raffica di mitragliatrice nel parco. Per pochi istanti vedemmo i poveri scappare, ma da tutte le parti ormai si sparava nel mucchio, e seguì subito una strana immobilità. I furbi si gettavano a terra per sottrarsi al tiro, e con loro, coi morti e coi feriti presto l'intero largo piazzale davanti al ghebì diventò una distesa di stracci appena palpitanti. Nel quartiere alto della città si diffuse il terrore. Correva la voce che Graziani fosse morto e che l'esercito di ras Desta si stesse avvicinando a Addis Abeba. a marce forzate. Il federale della città, di nome Cortese, ordinò la mobilitazione dei fascisti dando mano lìbera per la difesa della popolazione bianca, e ci fu un vero pogrom, prima sul mercato dove si cominciò a bastonare e ad ammazzare a bruciapelo, e poi per tutta la fo¬ resta di eucalipti, fra i tucùl. 1 Camionisti e operai si erano ar-1 mati in fretta e costituendosi in squadre per le spedizioni punitive. Incendiarono tucùl per tutto il pomeriggio, fino al tramonto, e debbo dire che tra le fiamme scoppiettavano bombe e cartucce di piccoli depositi di munizioni che in alcuni di essi erano stati ef- fettivamente nascosti. Era la prova dell'esistenza di un complotto di proporzioni probabilmente non del tutto trascurabili, e la ferocia della strage che si stava compiendo cresceva a mano a mano che se ne trovava conferma. A notte, la citta avvampava tutta e ci pareva d'essere assediati dal fuoco. Ai giornalisti fu dato l'ordine di non trasmettere in Italia nessuna notizia: «A meno — ci disse con sarcasmo il federale Cortese — che non vogliate telegrafare che Addis Abeba è illuminata da fuochi di gioia per lo scampato pericolo del maresciallo». Solamente la «Stefani» fu autorizzata il giorno dopo a dare una succinta informazione ufficiale: «Ieri, verso le 12, dopo ultimata la distribuzione delle regalie alle chiese, moschee e poveri di Addis Abeba, fatta da S. E. Graziani in omaggio alla nascita di S.A.R. il Principe di Napoli alla presenza di autorità civili e militari e dei capi e notabili rappresentanti le comunità copta e mussulmana, da un gruppo di individui infiltratisi fra i poveri, venivano lanciate — approfittando del movimento creatosi nella folla al termine della cerimonia — alcune bombe a mano. Rimanevano lievemente feriti il Maresciallo Graziani abbastanza seriamente il gen. Liotta, l'abuna Cirillo e alcuni indigeni». La sintassi è manchevole, ma merita attenzione il riferimento ai poveri tra i quali si erano infiltrati gli attentatori; ne traspare implicita una certa correità a giustificazione della strage che seguì. Altra notizia Stefani il giorno 22: «Immediatamente dopo l'attentato, la polizia ha proceduto a duemila fermi, mentre l'Avvocato generale mili- tare procede negli interrogatori per identificare i colpevoli che. conforme alle istruzioni di Roma, saranno processati senza indugio. Squadre di fascisti hanno ripulito taluni quartieri sospetti della capitale. La massa della popolazione si mantiene tranquilla. Trentamila soldati nazionali i presidiano Addis Abeba» Questo era per dare Tassi ' cùrazione che se mai ras Desta losse arrivato ad investire con il suo esercito la capitale dell'impero avrebbe trovato pane peri suoidenti di capo brigante. Terza notizia Stefani, ancora più breve ma di gran significato, la sera del 23: «Dei duemila indigeni sopra una popolazione di oltre 90 mila indigeni fermati dopo l'attentato del giorno 19, alcune centinaia che hanno potuto dimostrare la loro innocenza sonostati liberati Tuttiquelli trovati in possesso di armi sulla persona o nei loro tucul sono stati fucila ti, e per gli altri procede l'istruttoria». Alla minaccia di Desta. Graziani pare avesse creduto, almeno un poco. Dal suo lettino di ospedale ci raccontava in quei giorni che Desta ritirandosi dal Sidamo stava puntando verso il Guraghé, suo paese d'origine, per muovere di là su Addis Abeba dove frattanto si erano adunati i nazionalisti etiopici più accesi: «Sono quelli aderenti all'associazione dei "Giovani etiopici", che proprio io ho risparmiato dalla liquidazione sommaria che Roma avrebbe voluto. A loro si sono uniti gli ex allievi ufficiali della scuola di Olettà che si erano dati alla macchia nello Scioa. Li avevano ospitati i fanatici monaci del convento di Debra Lìbanos, e nei recinti di quell'inviolabile monastero che cosa hanno fatto? Esperimenti ed esercitazioni di bombe a mano». Poi, durante l'assenza di Graziani che era andato alla caccia di ras Desta, erano penetrati in Addis Abeba facendo fintamente l'atto di sottomettersi. Tutto chiaro, evidente: le autorità preposte alla sicurezza erano state inferiori al loro compito. Un tenente colonnello dei carabinieri, di nome Quercia, informato da un suo sottufficiale che qualcosa si stava preparando, aveva risposto con un poco di incoscienza: «Tutte fesserie». «E intanto eccomi qua crivellato di ferite, con una mutilazione di movimento al piede destro per la reci- 1 sione del poplìteo», protestava 1 Graziani. Il primo giorno in j ospedale se l'era vista brutta. Lo avevano operato per l'ali lanciamento dell'arteria po1 plitea destra, e in conseguen! za della cloroformizzazione j gli si era sviluppata una poi: monite traumatica. Proprio quella sera il federale Cortese ; era venuto a dirgli che i fasci'. sti della città volevano a qua' lunque costo compiere un'o- : perazione di rappresaglia: ■ «Pur con la febbre altissima : ho risposto che il comando militare spettava al generale Gariboldi unico arbitro in ■■ merito; e ho raccomandato ; che non si perpetrassero ec' cessi». Le sue dichiarazioni tradivano un tipico tentativo di : scarico delle responsabilità. ! Altre testimonianze riferiscono invece che in quei giorni di : ospedale Graziani dava ordini ', infuriati. E' comunque sicuro ; che sono falsi i racconti su ; una pretesa vigliaccheria di ; Graziani al momento dell'attentato: «Io mi trovai presente al fatto — scrisse più tardi in un suo libretto, a fascismo caduto, un giornalista famoso — e mai vidi un uomo più impaurito di questo sedicente eroe il quale si buttò per terra, lasciò che la folla negra lo calpestasse...». La prosa è truculenta, ma di vero c'è solo che Graziani crollò a terra trafitto, e in tali condizioni non è il caso di parlare né di paura né di ardimento. Per conto suo la folla negra aveva cercato salvezza nella fuga, e si trattava di poveri che si calpestavano fra loro senza pensare al viceré, il quale fu raccolto e sollevato dal generale Gariboldi, dal federale Cortese e dal capitano Mossuti. •Grondavo sangue da tutta la persona — scrisse Graziani più tardi —e mantenendo piena conoscenza e sangue freddo dissi loro di non perdere tempo a cercare la mia automobile ma di collocarmi nella prima che capitasse per farmi trasportare all'ospedale». C'era un fotografo dell'Istituto Luce, certo Birindelli, che fu lesto a mettere in moto una macchina vuota appartenente a chi sa chi: «Un'altra bomba fu lanciata senza che ci j colpisse — dice ancora Graziani —, all'uscita dal parco un'altra ancora, e appena fuori venimmo investiti da una raffica di mitragliatrice». ! Questa, probabilmente, era dei nostri che avevano già cominciato a sparare a casaccio, j avendo tutti perduto la testa. I A quanto mi ricordo, fu questo infatti il dato determi- ; nante delle stragi. Sotto la grande paura di quel pome- I riggio, di quella sera e di quel- 1 la notte di fuoco, nessuno ca- 1 piva più nulla, e la feroce pa- '> rola d'ordine che circolava tra ! i bianchi in tutta la città era I sparare, sparare, uccidere | quanto più si poteva. Mi ero rifugiato per dormire nei locali del nostro ufficio stampa che era protetto e vigilato dai carabinieri, e la moglie del capitano di cavalleria preposto ai giornalisti — una bellissima americana degli Stati del Sud, diventata marchesa grazie al matrimonio italiano — mi accolse con gentilezza e grande eccitazione: «E tu, Vittorio — mi domandò —, quanti ne hai ammazzati?». Non voleva credere che fossi senz'armi. Quel parossismo sanguinario per fortuna non durò a lungo. Per le strade, abissini non se ne trovavano più. nemmeno sul mercato, e in ogni modo il quinto giorno dopo l'attentato, il mercoledì 24 febbraio, arrivò la notizia che il tremendo ras Desta del quale si temeva l'arrivo a Addis Abeba, era stato invece raggiunto e catturato a Buttaggerà dalla banda tigrina : del degiasmacc Ligg Toclù Mescescià al comando di un : nostro maggiore di nome Tucci. e subito «passato per le ; armi». «Duce! — telegrafò ! Graziani dal suo letto in ospedale —i vostri ordini sono j stati come sempre, eseguiti, e i sono fiero di poter deporre . nelle vostre mani la netta vitI torio totalitaria che ci per; metterà di attendere sema j preoccupazioni all'avvalora; mento civile dell'impero». Non i voglio dire che mi consideras| sero ormai di troppo, ma il fatto è che allora fui congedato e ritornai a Roma. (PINE) Una postazione mimetizzata di bersaglieri