LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio

LETTERE AFRICANE LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio M IX a c'era il ras Desta da catturare, non bisognava dimenticarsene. Una mattina fui spedito come ufficiale osservatore a bordo di un Caproni da bombardamento per una ricognizione aerea a largo raggio. Era il mio primo volo di guerra, ma fu molto pacifico. Il pilota aveva segnato sulla carta il triangolo di territorio da sorvegliare fra capisaldi noti, e quando fummo sulla zona, attenzione attenzione, ciascuno ai posti di combattimento. Il secondo pilota guardava a destra, incollato il viso al finestrino di quel bordo, ed io a sinistra, accovacciato tra un fascio di moschetti e l'involucro di un paracadute di riserva. Il motorista aveva come posto d'osservazione la botola che si apre sul fondo della carlinga, quella da dove si calano le bombe. Disteso bocconi vedeva sotto di sé fuggire la terra. Attenzione, si gira. L'aeroplano scivola sull'ala destra dopo avere ridotto il regime dei motori, avanzando più adagio che può, con la maggiore inclinazione consentita. Allora la terra si alza quasi a perpendicolo sul nostro fianco, e noi possiamo vederla bene, pronta a rivelarci tutti i suoi segreti. Poi la.manovra è ripetuta a sinistra per consentire a me la funzione di scrutatore di turno. Che cosa gli altri possano scorgere di sospetto, non so, ma io non vedo altro che un paesaggio di pace, con case ed alberi solitari, campi deserti coltivati luminosi nel sole, oppure uomini e bestiame al lavoro ed al pascolo. Ogni capanna che si vede è circondata da un filare di alberi in quadrato, capanne bianche e rosse, piccoli animalini, ometti vestiti di bianco che levano in alto le braccia come per mandarci un saluto amichevole che valga a scongiurare il pericolo di un bombardamento. Poi eccoci su un monte tutto coperto di boschi, ma proseguendo verso occidente prendono il posto della foresta macchie di bambù e di eriche arboree che a loro volta fanno luogo a cighelie, a tamarindi e a palme dum. I contrafforti"1 ! della montagna si abbassano ancora e ci troviamo a sorvolare arbusti di caffu. Siamo di nuovo sulla pianura e qui c'è traffico: per un tratto la terra si copre di un formicolare di uomini e di muli, o per dir me- glio di punti neri piccoli e di | altri un poco più grandi. Sono 10 a segnalarli per il primo, ma 11 pilota risponde con un gesto di noia, non è la banda di Desta, sono i nostri di un battaglione che sta avanzando in colonna verso il Sud Ovest. Tutto in ordine, quindi, e difatti su un prato un poco avanti ci sono anche squadroni di autocarri rossi e grigi schierati in ordine chiuso co- me se fossero pronti per uno ; schieramento in parata. O noi ; abbiamo sbagliato rotta nella ricerca del nemico, o il nemico non c'è, da queste parti. Al ri- . torno, difatti, il rapportino del pilota dice solo: «Niente di | notevole da segnalare nella , zona assegnataci. Nessun movimento sospetto, nessun 1 assembramento ». Erano i rapporti di questo genere che innervosivano il vicere. Nonostante l'innegabile bravura delle truppe della ! Divisione Speciale Laghi, quel I maledetto figlio di fitaurari che era Desta restava inafferrabile. Un giorno ci arrivò la notizia di un fatto d'armi da nulla, piccolo combattimento contro ignoti, chi sa in che forze, e la relazione dell'uffi- | ciale comandante la colonna era, od apparve, del tutto | sconfortante. Ne risultava la probabilità che potesse volerci ancora molto tempo prima di riuscire ad acchiappare Desta. Non si escludeva neppure che egli avesse già raggiunto il confine del Kenia e stesse sul punto di superarlo. In ogni modo si riteneva che egli avesse come minimo un ' vantaggio di otto giornate di ; ; marcia sulle truppe nostre a ; lui più prossime. . , 1 Graziani si sentiva quasi ri-, dicolo. Partendo da Addis Abeba per il Sidamo aveva sperato di poter romanamente ripetere il «ueni vidi vici* di Giulio Cesare, e invece si trovava ridotto a scalpicciare fra le tende del quartier generale di Vondo. Quella sera ebbe a mensa una violenta passata di collera, e finalmente cambiò programma. Non si sarebbe più attardato a dar la cac¬ el I eia a ras Desta: «Non sono qui ri fò a o e i- a per acciuffare quel miserabi-. le. E' perché voglio ripercorrere dal Nord al Sud la via che ho aperta l'anno scorso combattendo dal Sud al Nord. Domani torno a Mogadiscio, via Neghelli». Potei andarci anch'io, per o | mia buona fortuna perché fu a ra re pg e o. he un viaggio in carovana molto bello che ricordo con grande nostalgia. Calammo il primo giorno da Aghereselàm puntando a Farsabèt, attraverso un paesaggio allegro e tondo per via di certe groppe di terreno che si rincorrevano fino ai margini di una lontana fo un ' resta cupa. Farsabèt significa di ; a ri-, is va ndi ora le a ta mbc¬ cosa dei cavalli, era un villaggio piccolo adagiato su ondulazioni erbose popolate da mandrie di vispi cavallucci in libertà, e vi sostammo per il primo rancio sulla sponda di un ruscello; ma per brevissimo tempo perché Graziani aveva fretta. Egli puntava il dito sulla carta topografica, tracciava l'itinerario da percorrere segnando i punti di tappa successivi: Gosa Dida, Orabessaie, Socorà, Daràr, Bitatta, Didaringi. Erano nomi tutti casuali. dati a un macchione d'alberi che interrompeva la solitudine del terreno o a un boschetto abitato da francolini, allodole, e gorese, che sono scimmiette bianche e nere, mansuete, di pelo lungo e coda ricci. I più crudeli fra noi ne facevano strage perché scuoiandole se ne potevano ricavare soffici scendiletto graziosi da portare in Italia. La sera piantavamo le tende su qualche declivio, e talvolta eravamo ammessi anche noi, ufficiali minori, a fare cerchio alla mensa del viceré che dopo cena parlava volentieri. Non conversava, in verità, perché piuttosto amava enunciare lui solo, generalmente intrattenendoci su Roma antica. Diceva che Plutarco era il suo autore favorito, e di conoscere jTacito, e di sapere a memoria quasi tutto Giulio Cesare. Una bellissima notte parlò a lungo di Claudio, figlio di Druso maggiore, fratello di Germanico, zio di Caligola, marito di Messalina, padre di Britannico, patrigno di Nerone: «L'imperatore Claudio...», cominciò a dire sollevando il mento e puntando l'indice su noi ascoltatori. Segui il rac- ! storica, si j tervenire. conto dell'invasione della Brij tanni a nel 43 d. C. (fino alla linea Tamigi-Saverna) e delle riforme a Roma: «Epurazione del Senato, espulsione degli ebrei, cittadinanza romana a molte colonie. I Cauci si ribellano? Claudio li doma, e poi vince anche i Catti». In qualche punto si imbrogliava, faceva orrende confusioni fra i nomi degli imperatori, ma nessuno di noi osava domandare spiegazioni e tanto meno correggere, da piccoli ufficiali quali eravamo. Solo Mario Appelius, che in quei giorni gli aveva dato da leggere il volume di Robert Graves, Il divo Claudio, un bestseller del tempo, apprezzatìssimo testo di volgarizzazione permetteva di inAppelius era un 1 poco il consulente culturale di i Graziani, il quale se lo teneva ! al seguito, se lo portava sulla : sua automobile, a mensa lo ; faceva sedere alla sua destra. Nei momenti di imbroglio o ; delle cadute di memoria del - j maresciallo, Appelius sgranava gli occhi, li arrotondava fuori dalle orbite alzando un dito indice, e diceva: «Non dimentichiamoci poi che Claudio fu acclamato imperatore dai pretoriani». Sembrava che volesse presagire una simile sorte a Graziani, in verità assai popolare fra le truppe, nonostante gli intrighi che tessevano a Roma gli invidiosi. Ma allora il maresciallo affettava un riserbo distaccato, non commentava e cambiava discorso. A suo modo era anche un uomo semplice, e aveva conservato una certa schiettezza Ricordo come usava tagliare la larga pagnotta militare alla maniera contadina. Se la premeva verticale contro il petto e la veniva segando con un coltellaccio verso di sé, e a mano a mano distribuiva le fette ai suoi vicini come un gentile patriarca rustico. La | prima volta che lo aveva fatto, Appelius se ne era mostrato estasiato: «Questa è la nostra antica civiltà contadina» avei va esclamato, e da allora Graziani non aveva mancato di ripetere il rito ad ogni riunione sotto la tenda della mensa. (continua) ddcmrt| i Africa Orientale Italiana, 1936: uno scorcio dell'ospedale da campo numero 203 (Archivio storico «La Stampa»)

Luoghi citati: Addis Abeba, Africa Orientale Italiana, Italia, Kenia, Mogadiscio, Roma