LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio di Vittorio Gorresio

LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio LETTERE AFRICANE di Vittorio Gorresio VII Una volta partito Immirù per l'Italia, restava da mettere ordine nel Gimma, ciò che significava rastrellare mandrie di sventurati e avviarli se possibile verso i loro territori di origine. Per primo ci cadde nelle mani il famoso bituoddèd Uolde Saciik già capo di un governo fantasma che si era insediato a Gore, il quale avrebbe dovuto ereditare i legittimi poteri del negus. Lo incontrammo che stava in una specie di palanchino rudimentale retto da quattro portatori, e mi sembrò ammalato. Era sconvolto: «Io non ho mai fatto la guerra — mi disse — non ho mai voluto farla. Sono vecchio. Io non voglio combattere». Era davvero vecchio, e malandato al punto da far dubitare che a Gore avesse mai potuto esercitare funzioni di governo. Poi ricomparve a Gimma il cantibài Tamma, che era stato una specie di commissario, o prefetto, incaricato dal negus di tenere all'obbedienza i capi minori del Galla e Sidarao. Ci chiese una scorta di ascari per andarsene via, fino a dove nessuno lo conoscesse perché si riteneva minacciato dalla popolazione di Irmata. Al colonnello Malta arrivò una lettera del degiacc Tajé Gulelatié discendente diretto di Menelik che il governo di Gore avrebbe voluto proclamare successore di Haile Sellasiè. Domandava che cosa dovesse fare, e Malta gli rispose di venire a presentarsi entro cinque ore. Arrivò con un anticipo di tre per consegnarci il suo sigillo di capo. Il comandante di avanguardia, o fitaurari, Tecla, un altro grande vecchio che imperava nel Limmu, ci fece sapere di essere pronto a sottomettersi anche lui con la sua banda, giurando che non aveva mai voluto impegnarla contro l'Italia. Gli rispon- demmo che venisse con i suoi, arrestandosi a un'ora di marcia dal nostro presidio, e andammo all'appuntamento che era in una radura fra gli alberi, in posizione dominante rispetto ad un ruscello. Tecla vi aveva messo in riga i suoi uomini, circa trecento a giudicare da lontano, e stava avanti a loro a cavalcioni di un muletto bardato. Al suo fianco un alfiere reggeva ritta un'altissima pertica che aveva in cima sventolante una pezza bianca, brandello di futa, segno di sottomissione. Ci accompagnava il degiasiìiacc (comandante la retroguardia) Ligg Toclù Mescescià, che faceva da interprete e da guida alla nostra mezza compagnia di eritrei. Ci consigliò di fermarci a distanza restando in sella, di qua dal ruscello. Tecla smontò dal suo muletto e venne a piedi a presentarci la forza della sua banda: trecentoventi armati, oltre a settanta ancora in cammino. Ritornò indietro a disporre i suoi uomini per due, ordinò avanti per fila destra, li avvertì che all'altezza dei due muntàs collocati da noi sulla sponda del ruscello ciascuno doveva depositare armi e cartucciere, sciaboloni e pistole. Li caricammo su una ventina di muli che reggevano male al peso ed all'ingombro, e riprendemmo la via per Gimma. Secondo gli accordi, avrebbero dovuto seguirci anche i trecento sottomessi disarmati, ma quando fummo verso Irmata, o perché gli ascari della scorta si stavano eccitando a fare fantasia, o perché i contadini uscivano dai tucùl ad imprecare da poveri galla contro i nemici amhara disarmati, colti dalla paura alcuni prigionieri cercarono di scappare. Gli ascari spararono, ci fu una grande confusione, qualche fuggiasco fu abbattuto, e noialtri ufficiali galoppando attorno avanti e indietro tentavamo col frustino di riportare all'obbedienza gli eritrei. Anche Virgilio Lilli, inviato del «Corriere della sera», si trovò in mezzo alla sparatoria, e un povero ribelle gli cadde morto quasi fra i piedi. «Non poten¬ do far altro gli ho fatto una fotografia», mi disse poi con un cinismo rassegnato quando stavamo ritornando all'accampamento. Là, il comandante del XII battaglione, avuto il rapporto di quella specie di rivolta disperata, fece eseguire le punizioni disciplinari: tante curbasciate sulle natiche dei responsabili della sparatoria quante ne prescrivevano i regolamenti del Regio Corpo Truppe Coloniali di allora. I quattro o cinque sparatori abusivi che erano stati identificati si calarono i pantaloni e si lasciarono frustare sulla nuda pelle del deretano: «Nostro corpo accomodare da sé. ma pantaloni chi rifare?», spiegavano con molta ragionevolezza rinunciando alla facoltà che loro dava il regolamento di non scoprirsi il sedere. Sotto le vergate non emettevano un gemito né contraevano un muscolo del volto. Se avessero buttato fuori anche soltanto un filo di voce sarebbero poi stati derisi da tutto il battaglione. Sola ' reazione ammessa era che la¬ sciassero cadere dalla mano un sassolino dopo l'altro per tenere il conto esatto di ogni colpo ricevuto. * * Qualche giorno dopo fu Na- | tale, e per la cena della vigilia ; ci invitarono due missionari : evangelici americani, marito e moglie, che abitavano in un boschetto a poca distanza dal ; nostro accampamento. Noi ufficiali ci andammo su un vecchio autocarro militare fragoroso, e vestiti ed armati come eravamo avevamo l'aspetto di briganti di strada! capitati nella Casina delle favole, tanto bella e adorna era quella villetta di legno, con le | tendine ricamate, paralumi di. ' garza, festoncini di fiori, lu- ! strini e moccolotti appesi al- | l'alberello natalizio infarinato per simulare la neve. Feci i miei complimenti alla padrona di casa, che però si doleva per la mancanza del vischio. Senza vischio il Natale le sembrava festa soltanto per metà: «Credetemi, anche voi quando sarete stati qui dieci anni come noialtri rimpiangerete sempre di più le usanze di casa. Adesso che siete nuovi può ancora farvi poco effetto». I missionari avevano una figlia di dodici anni, graziosa, che domandò perché il governo italiano non avesse pensato di spedire in Etiopia aeroplani di Natale con piccoli abeti e candeline e tutti i ciondoli luccicanti. «Gli aeroplani li adoperiamo per fare la guerra», le disse il tenente colonnello Lodolo, pilota spericolato e gran bombardatore che comandava il campo di aviazione di Gimma. «Perché?», gli domandò la bambina. Non eravamo gente adatta a risponderle in modo soddisfacente. Venuti a far la guerra in un paese di missione noi ci eravamo abbrutiti subendo quella specie di deformazione professionale che per i militari è quasi un obbligo, e che essi ostentano tal¬ volta con rudezza. Mi parve infatti che in quella casetta delle favole, in quella compagnia di persone gentili piene di pace, ci comportassimo da stonati. Anche seduti a tavola, un bel desco fiorito tutto pieno di crostini con burro e marmellata, molti di noi facevano le smorfie davanti alla crema di piselli, che era inzuccherata, ad un arrosto allo sciroppo con contorno di ciliege visciole, persino al pane che era scarso, e soprattutto al latte che fu la sola bevanda nella serata. Che gentilezza, però, che delicati pensieri: tutti avemmo in regalo un cartoncino con sopra in rosso il nostro nome tra fiori e colombelle e appropriati versetti nel bellissimo inglese della Bibbia di re Giacomo. Noi ufficiali e i missionari ci trovavamo ad essere in quei giorni i soli bianchi a Gimma, per non parlare di pochi greci dirazzati che si erano fatti abissini per via dei matrimoni. Ci parve quindi tanto più doveroso ricambiare l'invito ai missionari: «Vogliamo avervi ospiti domani alla mensa del nostro battaglione, se vi accontentate. Mangeremo alla buona, da soldati», disse il comandante del XII. Vennero il mattino seguente, a mezzogiorno, il missionario, la moglie e la bambina, e noi avevamo da offrire ravioli col sugo. Era difficile mangiarli perché il nostro cuoco tigrino aveva impastato la sfoglia con tanto impegno da renderla eccessivamente compatta, ed i ravioli erano sassi da spezzarci i denti e da slogare le mandibole. Io dovetti lasciarli nel mio piatto di alluminio, ma la famiglia dei missionari li mangiò per cortesia. Poi, dopo il pranzo, facemmo un po' di festa in una gara di lancio di bombe a mano dai filari delle tende verso il vallone, spiegando che gli scoppi sono un segno di allegria, (continua) 2n^ ' m/m.- Si ripara un carro cingolato, durante una marcia di trasferimento (Archivio storico «La Stampa»)

Persone citate: Haile Sellasiè, Lodolo, Tamma, Virgilio Lilli

Luoghi citati: Casina, Etiopia, Italia, Malta