In questo stato

In questo stato UN LIBRO DI ARBASINQ SUL CASO MORO In questo stato In questo stato s'intitola il libro di Alberto Arbasino sul «caso Moro*. L'autore lo definisce: 'Inventario e magazzino e deposito di cose dette e sentite nei più diversi ambienti italiani durante i due tragici mesi della vicenda, registrate dal vivo e a caldo, e conservate (anche se ingrate e sgradevoli) per gli storici futuri che vorranno ricostruire dal vero quell'atmosfera inverosimile*. Del volume, che l'editore Garzanti sta per pubblicare, La Stampa offre un'anteprima. Due visi mi. Immaginate voi un sovrano ibi .uato a governare dal centro del potere ogni svolta e compromesso della politica italiana da decenni; abituato a considerare il partito e i ministeri come cosa propria; o inoltre abituato a un notevole comfort personale e medico, con aerei personali e piccola corte? Privato di tutto, non essendo più il «pivot» di niente, perde il barlume, come Re Lear, e pretende di governare tuttora ogni cosa come ha sempre fatto per tanti e tanti anni; e si infuria se le Regane e le Gonerille non obbediscono. Macché, ha capito tutto, ha plagiato senza sforzo anche i suoi catturatori, li ha storditi con le sue mediazioni, ha eliminato tutti quei temi scomodi dei primi giorni, e ne approfitta anche per sfogare vecchie antipatie. Non per nulla: contro l'Austria, contro la Germania, contro chi insomma non fa scherzi né compromessi, è facile fare gli eroi, Ù Silvio Pellico e il Cesare Battisti. Non costa niente, quando — tanto — non c'è scelta. Però nell'Italia attuale, dove ogni transazione e compromesso paiono possibili, sembra invece più realistica la tattica adottata: funzionare apparentemente come portavoce dei catturatori, però al contrario trasformarli in propri galoppini con promesse di collaborazione nel Destabilizzare il Sistema, dunque superando a un certo punto le vecchie recriminazioni meschine (lo sapevate che la scorta era inadeguata, perché non mi davate una stanza adatta a Palazzo Cenci), e adottando anche quei piccoli sorprendenti tocchi mondani (caro Craxi, non so se questa lettera ti troverà al Raphael o al partito...) dove non si riesce a sentire un'aura terribile (nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza non si trovano molti «non so se ti raggiungerà al De La Ville o al Caffè Greco»), ma un tono misteriosamente al corrente con i salotti romani già in attesa di un ingresso in sot cietà dei brigatisti dopo il disinvolto scambio d'ostaggi proposto («come ci si veste?», già chiesto anche a ministri ecc.)... E inoltre, finalmente — si sente dire — ritorna il civilissimo uso di scambiar tante lettere quotidiane con gli amici, dopo tanti anni di alienante pratica telefonica: è una lezione da meditare per tutti. (E intanto il curioso estero continua a domandare ogni giorno: ma come sarebbero state le lettere dal carcere, se il rapito fosse stato il Tale, oppure il Tale? Come vorremmo leggerle!). Business as usuai. Questo («l'attività continua») è il cartello di tutti i negozi inglesi dove si continua a tenere aperto e a lavorare anche durante lavori in corso che buttano per aria tutto; e si sa che divenne il famoso motto della resistenza churchilliana del fronte interno sotto le bombe di Hitler. Passata l'emergenza, poi, «la vita riprende», lo dice anche il Macbeth. Ma durante un lunghissimo dramma come il nostro attuale, capace di riempire «ì migliori anni della nostra vita» per più di una generazione italiana, che cosa può significare — sul serio — per noi, «business as usuai», qui adesso? Il governo che fa sommessamente come dormendo impotente il proprio mestiere e il proprio dovere? La gente che assiste al dramma come seguendo uno spettacolo a puntate nel quale nessuno può intervenire perché è «chiuso» e non «aperto», in uno sfarfallio fittissimo di segnali di coinvolgimento, di insofferenza, di potere, di sopravvivenza, e anche di «mo' me' so' stufato»? Dove passano i limiti giusti fra il «tirare avanti comunque» e il «far bene il proprio lavoro» e «una partecipazione attiva» e «la politica dello struzzo»? E la partecipazione e l'agitazione e l'animazione e il lavoro e il dovere e il mestiere, in che cosa consistono, allora, per tutti? Continuare a fare giorno per giorno il varietà televisivo e il concorso ippico e la tavola rotonda e la polemichetta letteraria e la mostra-mercato delle vacanze, «come se niente fosse» e dando quindi prova di «tenuta»? («Io no dato grandi prove: perfino nei giorni più difficili, neanche un appuntamento spostato col dentista, col bar¬ biere, col sarto!»). O tentare di far sentire l'orrore della sua condizione a chi non se ne rende magari conto, a costo di ripetere magari non solo che il re è nudo, ma si è messo nudo per niente, mentre continuano a capitare cose gravissime, cose che una volta si affrontavano con gli strumenti dell'Espressionismo, della Nuova Oggettività?... Ma dove va a finire tutto il nostro chiacchiericcio così recente sulla cultura di Weimar, allora, se poi trovandoci in situazioni simili continuiamo a regredire al bozzetto e all'idillio, o a quella torre d'avorio che da qualche tempo si menziona così poco, mentre non è mai apparsa così abitata e fremente e dev'essere l'unico edificio italiano dove il telefono non risponde mai «è fuori stanza»? O non sarà invece, anche questo, un altro segnale di gran tenuta e gran maturità italiana? Ala creativa. Come si sono manifestate, la creatività e l'invenzione? «Classica» è naturalmente la strategia che si pone come scopo di dividere il nemico, tatticamente e psicologicamente, magari facendogli balenare traveggole, come nelle battaglie, una colonna prosegue di qui, un'altra svolta di là. e intanto come sottoprodotto si possono realizzare altre alleanze magari paradossali, che degenerano presto in dissapori e tafferugli, e forse poi in ricomposizioni. Classico è il deterrente propagandistico e promozionale del sovrano nemico catturato e spodestato e messo in gabbia e indotto a tirare carrette e cocchi: frequentissimo in tutto il Medioevo, altro che società dello spettacolo. (Vedere anzi nel Tamerlano di Marlowe che cosa capita a Bajazet). Classica è anche la situazione drammaturgica del vecchio capo e padre e nonno che lancia dal limite dell'ai di là malefizi tutti funzionanti (questo è un «topos» prediletto da Verdi). Più moderna sembra invece questa situazione di zizzanie lanciate dall'interno del «ventre della balena» (Giona, Geppetto, George Orwell), eppure funzionali: ci sarebbe voluto Bachelard, per appurarle. Assolutamente di Caspar David Friedrich sembra invece l'invenzione del Lago della Duchessa: solo un'algida immaginazione pittorica del tutto settentrionale può evocare una distesa di ghiacci polari nel centro dell'Italia e nel cuore della primavera. Degne di Rossellini e di Paisà parrebbero piuttosto le strade sbarrate come in guerra nel centro di Roma fingendo forse lavori stradali estemporanei per rendere più arduo un assalto alle abitazioni dei potenti. (O forse con queste barricate stradali di pali bianchi e rossi è la Realtà mime che sta attraversando il Pasolini delle Lettere luterane, il Volponi del Sipario ducale, il Camon di Occidente, i tanti carteggi letterari d'attualità — «caro A...», «cara B...» — nelle prime pagine dei giornali... e finisce per raggiungere adesso il Gian Sacerdote del Reportage d'Anticipazione, Sciascia, e Todo modo e II contesto diventati ormai, una volta messi in film da Petri e da Rosi, addirittura impressionanti e malaugurate profezie...). Pochi «spiragli» e scarsi «canali», invece, quando i comitati e le commissioni e i consiglieri, invece di aggirarsi intorno ai nuovi modi e alle inedite forme per mistificare tortuosamente la Legge, o almeno per «salvare la faccia» dopo le proposte avventate, non ricorrono all'antico istituto della taglia, magari camuffata, e con l'accorgimento di moltiplicarla, cosa non difficile per chi ha amministrato il Partito delle Tangenti: dunque non un miliardo cash e «tout court» e «una tantum», bensì un miliardo «a cranio», dunque dieci miliardi per dieci crani, cinquanta per cinquanta, e via. Nessuna proprio nessuna «ala», invece, ove non ci si rende conto che questa è una catarsi paragonabile a quei sanguinosi riti di pubertà e di crescenza tipici nelle tribù primitive che massacrano periodicamente i vegliardi immobili da cui sono state lungamente oppresse: come nella tradizione del Bosco Sacro di Nemi. dove si poteva succedere al sacerdote in carica soltanto ammazzandolo, e assumendone dunque il sacerdozio e l'immunità. Dunque macché piccole modifiche ai vetri e ai cessi nelle carceri, per «voltar pagina», e macché imbarazzanti genuflessioni di pontefici a cui non rispondono né divinità né carnefici. Occorrerebbe (basterebbe) forse allontanare la vecchia classe dirigente, eliminare le vecchie «facce note», e ripartire con «facce nuove» (così come in tutti i Paesi europei non malati si è fatto e si fa fisiologicamente, senza traumi, basta controllare l'età media dei ministri, e dunque il tempo medio passato da quando hanno lasciato la gente per rinchiudersi nel Potere)?... Particulare. Dalle lettere di Moro — esaminate senza sussiego né saccenteria, ma con rispetto e quello sbigottimento provocato da una grande tragedia che produce non dramma ma soprattutto miserie — emergono connotazioni tipicamente laiche, appartenenti addirittura a una tradizione antica, giacché senza sante messe e comunioni tutti i giorni il vecchio «particulare» guicciardiniano in fondo in fondo si manifestava primariamente anche così. E forse però appartiene al medesimo filone anche il «particulare» del piccolo borghese medio che in mezzo alla truce ma prolungata storia attualmente borbotta «come potete chiedermi di intervenire a commuovermi e firmare appelli? Devo fare il tagliando della macchina, andare alla partita, portare i pupi al mare, passare a ritirare lo stipendio, ma è mai possibile che con tutti i soldi accumulati dalla "lunga permanenza" alla "gestione del potere" non finiate per mettervi d'accordo?». Aggiungendo magari: «Ah, ringraziatemi, per favore: è grazie appunto a questa mia Grande Tenuta che il popolo italiano si comporta così bene e voi potete dire che "tiene"!». (E quando l'ennesimo messaggio dell'ennesimo rapito passerà nelle pagine interne dei ; giornali, perché nelle prime ci saranno delle cose più impor; tanti, quali il Grande Esodo di | Ferragosto?... E a Milano, fra I gioppini e pigotte, non si co; mincia già a dire «l'è un SesJ santott», o «l'è un Settantott», j così come si diceva un tempo «l'è un Quarantott»?). Multinazionali. Dimenticate? Solo qualche accenno. | quando si riparla di quella tej stina Ibm. o di quelle istanta; nee Polaroid ormai diventate | un lusso per rapimenti e per incontri ravvicinati del terzo ! sesso; o tutt'al più qualche ! cronaca della Technicolor che ' fa di tutto per andarsene e vieI ne recriminata perché non si ; trattiene. Bisognerebbe invece ! ridiscuterne, magari più con: cretamente: ci portano via ro, ba, ci portano via soldi, o ci portano via intelligenza e ideo| logia e «discorzo» e voglia di I lavorare? I veri nemici sono | quelli che ci smerciano prodotti o quelli che ci sparano o ci I sparerebbero? Quali congiure J straniere hanno intrigato den! tro la nostra economia e la nostra scuola? Quale complotto internazionale ha messo a punto l'infernale habitat di condomini e villette e slums che ha i distrutto la natura vivibile e dove si sa che la criminalità di massa si sviluppa identica alla aggressività nelle topaie sperimentali? (...). Siddharta. «Ah, se Moro riemergesse finalmente trasfor-1 mato in guru, in maharishi, non più scrivendo tutte quelle letlete, ma con la trovata geniale di star silenzioso per sempre (come Ezra Pound, che è l'è-1 sempio più pertinente e più lusingniero), ecco bell'e pronto un carisma sconvolgente, che . diventerebbe senza fatica una leggenda vivente del nostro secolo. Basta inginocchiarsi tra i morti; anche magari lasciandosi crescere un po' i capelli e la barba: ed ecco accendersi mille e mille incensi intorno, praticamente da sé». Alberto Arbasino

Luoghi citati: Austria, Bajazet, Germania, Italia, Milano, Nemi, Roma, Weimar