Davanti alla Sindone di Luigi Firpo

Davanti alla Sindone CON LE PAZIENTI CONQUISTE DELLA RAGIONE Davanti alla Sindone Chi scrive sui giornali si espone, come è giusto, ai dissensi e alle censure del pubblico, che fa benissimo a manifestare quelli e queste, sol che rispetti i modi di un dibattito civile. Rispondere sempre, a tutti, sarebbe impossibile per ragioni di tempo, di fatica, di scarso interesse dei più. e alla regola del silenzio ho scelto perciò quasi sempre di attenermi: l'eccezione si propone quando dall'obbiezione singola si può risalire ad un problema generale di metodo, cioè a considerazioni che possano assumere un significato non occasionale. Mi riferisco al cortese interven to del signor Dario Serafino (apparso domenica scorsa nella rubrica «I lettori discutono» sul tema La Sindone e i Vangeli"), che rileva omissioni e inesattezze commesse nel mio scritterello L'uomo d'oggi davanti alla Sindone apparso nello Speciale Supplemento de La Stampa del 27 agosto. Lo spunto che esso offre è quello dell'applicazione della corretta critica storica alla sindonolcgia e del preciso limite che deve separare la scienza umana — povera, umile, malsicura, ma inflessibile nel suo rigore — dai rapimenti della fede. Credo che si debba il più profondo rispetto ad ogni tipo di genuina esperienza religiosa, ma solo fino a che essa non pretende di invadere il terreno della ragione: diciamo che si può benissimo scrivere una storia della mistica, ma che è tempo perso scrivere una mistica della storia. Per chiarire questi concetti, la ormai vastissima discussione sulla Sindone torinese offre spunti di sicura efficacia. La questione complessa dell'autenticità del cimelio si dibatte infatti sulle testimonianze storiche della sua presenza in luoghi ed epoche determinate, sulla congruenza con le usanze funebri ebraiche, l'impiego di sostanze aromatiche, le tecniche di tessitura, le tracce di pollini di piante acclimatate in determinate regioni, i processi biochimici generatori delle impronte anatomiche, addirittura le presunte tracce di sangue o di siero. Tutti argomenti di indagine che, presi uno per uno, nulla hanno a che fare con la fede e che la critica storica rivendica a sé, senza eccezioni. Facciamo un esempio: sembra definitivamente caduta, per una serie di obbiezioni tecniche insuperabili, l'ipotesi delle evaporazioni ammoniacali che avrebbero alterato l'aloe spalmato sul telo, imprimendovi chimicamente l'immagine corporea del Sepolto. A questo punto l'uomo di scienza deve escogitare altre ipotesi, che rispondano ai canoni della funzionalità e della verosimiglianza: spiegare l'impronta con il lampo di irradiazione (atomica?) sprigionato nell'attimo della resurrezione è semplicemente un non-spiegare, una rinuncia alla ragione. Tanto varrebbe dire che la Sindone è un miracolo, e basta così. Vediamo ora le obbiezioni specifiche. Cercare nei racconti evangelici le prime testimonianze dell'esistenza della Sindone è manifestamente un'arma a doppio taglio: a stretto rigore, la reliquia potrebbe essere autentica anche se gli Evagelisti non la nominassero affatto (essi non erano certo tenuti a registrare ogni minuzia, bensì ad annunciare la Buona Novella), mentre sarebbe sorprendente il loro silenzio se si trattasse di un falso, perché un falsario ricrea un oggetto noto e venerando, non uno mai nominato, gratuito, e perciò meno credibile o meno adatto a suscitare l'emozione dei credenti. il falsario che nel secolo scorso tentò di vendere al museo del Louvre un prezioso carro da guerra incaico, aveva commesso soltanto una piccola svista, dimenticando che i Peruviani non conoscevano la ruota. Meglio dunque, per un falsificatore, attenersi strettamente ai testi. Esiste una letteratura sterminata sugli accadimenti immediatamente successivi alla morte di Gesù, non tanto per analizzare le controverse modalità delle sue esequie, quanto fier il fatto che detto seppelimento prelude di un giorno e mezzo appena all'evento culminante — e decisivo per la fede cristiana — della Resurrezione. Orbene, i racconti dei quattro Evagelisti su quelle ore di iutto e di stupore presentano una sequela di fitte contraddizioni, che hanno affaticato legioni di interpreti. Non mi soffermo ad esporle senza poterle poi discutere e analizzare; ma almeno quelle della sepoltura occorrerà elencarle brevemente. Secondo Giovanni ( 19, 38-43), Giuseppe d'Arimatea ottenne da Pilato il corpo del Crocifisso; subito lui e Nicodemo. che aveva recato con sé «una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre», «presero il corpo di Gesù, lo avvolsero nei lini con gli aromi, com'è usanza di seppellire presso i Giudei», e lo deposero in un «sepolcro nuovo» scavato in un giardino presso il Calvario. II., tutto entro la sera dello stesso venerdì di Passione, a «motivo della Preparazione», cioè prima che la notte segnasse l'inizio della festa grande del sabato. Pasqua degli azzimi. Secondo Matteo (27, 59) si trattava di un «lenzuolo intatto», cioè mai usato; secondo Marco ( 15, 49) di un lenzuolo comprato sul momento; l'apocrifo Vangelo di Pietro, redatto verso la metà del II secolo, narra che Giuseppe «prese il Signore, lo lavò, 10 avvolse in un lenzuolo e lo portò nel suo proprio sepolcro, detto il giardino di Giuseppe». Con ciò il trattamento funebre secondo l'usanza ebraica era in tutto compiuto: esso consisteva nel lavare il corpo con semplice acqua, nell'avvolgerlo in un telo e nel deporlo entro la cavità sepolcrale, steso sopra un ripiano: gli abbienti cospargevano la salma di sostanze aromatiche per coprire il fetore della decomposizione, dato che la chiusura con una semplice pietra rotolata contro l'imboccatura non era certo ermetica. In ciò si esauriva l'imbalsamazione (cospargere di balsami), senza nessun rapporto con le procedure egiziane di asportazione dei visceri e di manipolazioni intese alla mummificazione. Riesce perciò contraddittorio e incomprensibile il comportamento delle pie donne, che secondo Luca (23. 56), tornate in città dopo la chiusura del sepolcro, «prepararono aromi e unguenti» e con essi si recarono la domenica «di buon mattino» (24. 1) a quella tomba che il costume religioso e la loro esile vigoria non avrebbero certo consentito di aprire. Marco ( 16, 1-2) assegna invece l'acquisto degli aromi alla tarda sera del sabato e l'andata al sepolcro «al levar del sole... per andare a imbalsamare Gesù»; Matteo (28, 1) parla del loro recarsi all'alba «per vedere il sepolcro», ignorando del tutto gli aromi, che Nicodemo aveva già profuso in abbondanza fin dal venerdì; Giovanni (20, 1) fa andare al sepolcro la sola Maddalena, «quand'era ancora buio» e senza balsami. Di reperti entro il sepolcro vuoto del Risorto i Sinottici non fanno cenno; unico testimone è Giovanni, il quale dice (20, 6-7) che Pietro «entrò nel sepolcro, e vide i lini giacenti e 11 sudario che era sul capo di lui, non giacente con i lini, ma involto separatamente in un unico luogo». Orbene, dei tre nomi impiegati in questi testi per designare i tessuti funerari, l'unico inequivocabile è soudàrion, vistoso latinismo da sudar (sudore), cioè un ampio fazzoletto o pezzuola, in tal senso utilizzato da Luca ( 19,20), che veniva legato a coprire il solo volto dei defunti, come era avvenuto per Lazzaro (Giov. 11, 44). Questo dato suona dunque a sfavore dell'autenticità della Sindone, perché la presenza del sudario avrebbe dovuto impedire o fortemente attenuare l'impressione del volto sui lini, rispetto alle altre parti del corpo poste con essi in diretto contatto, sempre che questo non risultasse già di fatto annullato dai 32 chili di aromi profusi da Nicodemo. Risparmio ai lettori l'ipotesi di un sudario attorcigliato (entetytigménon) da principio, usato come fascia mandibolare, di cui sarebbero addirittura colte le impronte sulla Sindone. Resta l'incertezza sostanziale degli altri due termini: sindon e otbónia. Il primo indica genericamente una stoffa di lino, di solito un tessuto fine, una mussolina, una veste leggera, una tunica, ma persino una fasciatura per mummie (come in Erodoto, 2, 86). Tradurre lenzuolo è già una forzatura (le misure del cimelio torinese lo escludono) e non resta che «telo» o «lini», tenendosi sul vago. Non diverso è il senso di othonion: velo leggero, fazzolettino di mussola distribuito gratuitamente nei teatri perché il pubblico lo sventolasse in segno di plauso, fasciatura per feriti, biancheria fine, bandiera, vela per navi. Il termine è per sua natura generico, e qualunque specificazione rischia di far violenza al testo. Quanto al Vangelo degli Ebrei, già diffuso nei primi de- cenni del secolo II, ce ne restano poche schegge, quasi tutte salvate da S. Girolamo, che l'aveva tradotto per intero. Da quel poco si può dedurre solo che aveva molte affinità con i Vangeli canonici, ma era fortemente inquinato da elementi superstiz.iosi. Del Risorto diceva che, «dopo aver dato il sudario al servo del sacerdote, andò da Giacomo», cioè reca semmai una testimonianza sul sudario, non sulla sindone, e per giunta contraddice Giovanni, che quel sudario dichiara di aver visto con i suoi occhi ancora giacente dentro al sepolcro. E poi. di quale credibilità può godere un testo che racconta che Gesù chiamava «madre» lo Spirito Santo, il quale lo avrebbe sollevato per un capello traspotandolo a volo sul monte Tabor; e definiva la Madonna un'incarnazione della «forza» dell'arcangelo Michele; e asseriva che al momento del Consummatum est non si era lacerato il velo del tempio, bensì si era spezzato «l'architrave di infinita grandezza»? Lungi dall'ignorare questo testo (fui io a promuovere anni or sono, in una collana che dirigo, la prima grande versione italiana degli Apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, Utet, 1971. pp. 2020). lo avevo ritenuto malsicuro e favoleggiali te. Resta a mio carico il fallo di aver definito Clemente VII ( 1378-94) «papa d'Occidente». In verità, non avevo aggiunto precisazioni a quel nome e fu il proto, con esemplare zelo, a farmi presente che papa Clemente VII non collimava con le date (fu il papa del sacco di Roma). Ma «antipapa» non potevo scriverlo, per non cadere nella stessa illusione ottica di cui sembra vittima il lettore Serafino, che si attiene ad una successione apostolica convalidata solo a posteriori. Io credevo di aver chiarito che mi riferivo al papa dello Scisma d Occidente (la Chiesa orientale non ha papi): un'autorità che nel suo tempo e nell'area di sua obbedienza (la Francia, nel ! nostro caso) godette di intero j prestigio e i cui decreti vennero j certo accolti come legittimi. I Capire la storia vuol dire ap| punto riuscire a leggere gli I eventi con l'occhio dello spet| latore di allora, non con l'inuI tile senno di poi. Per condurre I innanzi il discorso «storico» j sulla Sindone occorre una to| tale disponibilità alle pazienti conquiste della ragione. Luigi Firpo

Persone citate: Arimatea, Clemente Vii, Dario Serafino, Della Ragione, Gesù, Pilato

Luoghi citati: Francia, Roma, Torino