Un colpo di pistola treni'anni fa di Francesco Rosso

Un colpo di pistola treni'anni fa Un colpo di pistola treni'anni fa Tutta l'Italia nel '48 si commosse per Pia Bellentani, la contessa protagonista del "delitto dell'ermellino,, - Oggi un simile fatto forse occuperebbe una colonna di giornale Trentanni fa, esatti, nella notte di un settembre forse come questo, dolcissima agonia dell'estate, la contessa Pia Bellentani da Polenta uccise il suo amante Carlo Sacchi, industrialotto della seta. Un colpo solo, pistola cai. 9, e Carlo Sacchi crollò fulminato. Un bersaglio degno di un'olimpionica, solo che Pia Caroselli in Bellentani non aveva mai impugnato un'arma. Anche questo dettaglio fu poi sfruttato al processo con tanti altri, ma in quel momento non c'era tempo di guardare in fondo alle cose; il .delitto dell'ermellino», come fu subito definito, attrasse la curiosità morbosa dei lettori, i giornali aumentarono la tiratura e, mi pare, aggiunsero una pagina. Il «delitto del secolo», poi «il processo del secolo». Ma se ne fecero altri, ancor più «del secolo». Il terzo processo Grande, con l'assoluzione piena del diplomatico; Rina Fort, che massacrò a colpi di bottiglia la moglie e tre figli dell'amante; Wilma Montesi, che coinvolse mezzo mondo politico e qualche cardinale sfiorando persino il soglio di San Pietro. Ma era tutta roba da venire ; nel settembre del 1948, eppoi per alcuni anni, il «delitto dell'ermellino» tenne banco. Guardata oggi, quell'avventura tragica ci appare come una tresca provinciale conclusa scioccamente. Anche oggi donne, o uomini gelosi uccidono amanti stanchi; gli si dedica un titolo a tre colonne. Ma a quei tempi era differente. Eravamo appena usciti dalla guerra, le città erano ancora lividi cimiteri di macerie, il traffico era costituito da biciclette e da alcuni spetezzanti scooters. Si campava ancora con la borsa nera. A Como, invece, i ricchi si divertivano e si uccidevano fra di loro quasi giocando alla tragedia, strappandosi gli amanti, odiandosi con eleganza. Pia Bellentani era del gruppo «bene». Possedeva un motoscafo, «L'Ippogrifo», col quale si lanciava in corse inebrianti sul lago, amava e si lasciava amare da Carlo Sacchi, frequentava i «Pomeriggi letterari» del venerdì, riceveva nella sua bella villa di Urio, rendeva visita alle amiche nelle ville sontuose a specchio del lago. Possedeva gioielli, ed una cappa di ermellino. Era un temperamento malinconico; leggeva Leopardi, Rilke, j un po' di Sartre per stare al j corrente con l'esistenziali- | smo, un poco di Schopenhauer per rimpolpare il suo scetticismo. Era credente; in chiesa si concentrava in preghiera con tanta intensità da rasentare l'estasi. Poi si ridestava e correva da Carlo Sacchi il quale incominciava ad essere sazio. Si erano conosciuti nel 1940 (fatale incontro a Venezia, Lido, Hotel des Bains) ed avevano' incominciato subito. Nel 1943, per cercare un po' di sicurezza, i Bellentani sfollarono sul lago di Como, quasi contemporaneamente ai Mussolini ed ai Petacci. Quanto durò la relazione? Nel settembre 1948 era sicuramente conclusa, con dispetto della contessa, che incominciò con le bizzarrie. Un giorno tentò di gettarsi sotto l'auto dell'amante, che riuscì a schivarla. Foi giunse il 16 settembre, con una festa sontuosa al Grand Hotel Villa d'Este. Protagonista della serata Mimi Guidi, nuova fiamma del Sacchi, proprietaria di un atelier di moda. Orchestrina, cena succulenta (si andò a cercare il menù), sfilata di belle indossatrici. Poi danze, e lunghe soste al bar, dove Carlo Sacchi sorseggiava champagne. Pia Bellentani da Polenta è in un angolo, torva. Si alza decisa, va al guardaroba dove il marito, entrando, aveva lasciato un pullover con dentro una pistola calibro 9, si fa consegnare il pacco e rientra al bar avvolgendosi nella cappa d'ermellino sotto la quale nasconde la rivoltella. Si accosta a Cario Sacchi, parla concitatamente con lui. quindi, disperata, gli dice: • Bada che ti uccido-. «Spacconate da terrona-, gli risponde l'amante sazio. Lei spara, e lo uccide davvero. Vennero a galla tutte le magagne di un mondo frivolo e provinciale, «la corruzione della società elegante: la cocaina: il torbido di passioni sporche ed avvizzite-, si scrisse. Era sicuramente un mondo strambo, dove circolavano ancora ex soubrettes austro-ungariche dei fratelli Schwartz, come Lotte Menas. e donne disinvolte nei rapporti con gli amici dei ma¬ riti. Carlo Sacchi era adorato da tutte. Anche da Pia Bellentani che scriveva poesie dal titolo Foglie d'autunno. Carlo Sacchi scriveva anche lui versi, in dialetto meneghino. Scrisse un poemetto di 3999 versi (chissà perché non arrivò ai quattromila) in cui erotismo, pornografia e oscenità erano la salsa piccante. Emmanuelle, in confronto, è un libro casto. Che ci faceva 11 in mezzo la sentimentale, sognante, romantica Pia che, di balzo, come una tragica eroina da romanzo di Liala diventa la donna del momento? Niente di strano, ci sta anche lei a quel gioco dei quattro cantoni amorosi, finché scatta una molla che la trasforma in omicida. E questa molla ha un nome, terribile per quei tempi: il «mal franzese», la sifilide. Suo padre, ricco impre- sario edile di Sulmona (erano già di moda allora), quand'era ancora scapolo s'era svagato con una ragazza, di Pescara, o di Roma che, con un rapido brivido di piacere gli aveva regalato anche un pizzico di spirochete pallide. Ma questo si seppe al processo, che fu celebrato a Como nel marzo del 1952: fino a quel momento l'interesse fu concentrato sull'assassina in ermellino, sulla cornice in cui si era consumata la tragedia. Nel bar del Grand Hotel Villa d'Este. lavato il sangue di Sacchi dalla moquette, ripresero i trattenimenti, con clientela differente, si capisce; quelli del giro Bellentani si erano dispersi come passeri dopo uno sparo. Lei, la tragica eroina, continuò a leggere Leopardi, Sartre, Schopenhauer, un poco di Rilke e di Rimbaud nel manicomio criminale di Aversa dove, per compagne, aveva la saponificatrice Cianciulli ed una certa Cataldi. che aveva sgozzato una donna per rubarle una pelle di volpe, eppoi aveva sgozzato anche il bambino che si era chinato a piangere sul cadavere della madre. Si scrisse di Pia Bellentani, in continuazione, per quasi quattro anni, finche si arrivò al processo. Quale recita ofI frirono gli avvocati d'accusa e difesa. Lei, la contessa in ermellino, chiese ed ottenne di non presentarsi: disse che non poteva sopportare la cuj riosità. L'avv. Luzzani, morto, l'avv. Delitala, morto, sfoggiarono numeri da grandi maestri del sofisma. Esibirono il poemetto porcellone di Sacchi, rievocarono le sue avventure infinite in un gregge di donne fameliche di lui. Sostennero, e con successo, che se Pia Bellentani avesse sparato altri mille colpi non avrebbe mai potuto centrare con tanta precisione il cuore dell'amante stanco e provocatore (l'aveva chiamata terrona). Esibirono anche l'ermellino su cui tanto si era scritto. Ricordo quel corpo di reato messo sotto gli occhi dei giurati di Como; era un cencio, giallognolo, che ricordava le mantelline indossate dai canonici, sempre un po' tabaccosi, quando si riunivano per salmodiare in coro. Risultato, una condanna a dieci anni di carcere. Niente premeditazione, quindi, e semi infermità, per via di quelle spirochete ereditate dal pa- i dre. Processo di appello: pena ridotta a meno di otto anni, più tre anni in casa di cura, cioè di manicomio criminale. La contessa era ricca, nel 1938 aveva portato in dote al conte Lamberto Bellentani da Polenta due milioni, una cifra cospicua per quei tempi. Potè ] pagarsi una cella tutta per sé, ottenere un pianoforte su cui arpeggiava un po' di Debussy. Il conte Lamberto Bellentani da Polenta si era ritirato a Montecarlo; non pronunciò mai parole sgradevoli contro I sua moglie; fu con lei cortese ì ed aristocratico finché mori, j La contessa stava un po' ad Aversa, nel manicomio, un po' ! a casa, a Sulmona, in «licenza I prova». E le due figliole, lasciata Montecarlo ed il babbo, correvano dalla mamma in Abruzzo. Finché la libei arono definitivamente. Si stabili a Roma, ritornò in | circolazione, ma senza provocare curiosità. Si risenti dell'oblio; la «contessa dell'ermellino» era dunque morta nella memoria del pubblico? Erano gli Anni Cinquanta, incominciava l'ilare follia della «dolce vita» romana in via Veneto, via Condotti, via Margutta; era il momento della swing ing Rome: Anita Ekberg ricacciava nel buio le I stanche eroine del primissimo dopoguèrra. Pia Bellentani si risentì. Conosceva un giornalista. I scrittore di gialli; Enrico Ro- j da. Si accordò con lui per | stendere le proprie memorie, che apparvero su un periodico milanese col titolo «Lettera ai miei giudici». Ed ebbe una querela da Lily Willingher, vedova Sacchi, anche lei austro-ungarica. La vicenda si concluse nel novembre 1958: Pia Bellentani devolvette la cifra ricavata dalle sue memorie alle due orfane di Carlo Sacchi e la vedova ritirò la querela. E di Pia Bellentani non si parlò più. Perché abbiamo riesumato oggi la sua tragedia, trent'anni dopo? Per ripresentare una certa Italia attraverso certi italiani, che, nonostante il vertiginoso evolversi della vita, non sono cambiati molto. Francesco Rosso