Come è piena Venezia

Come è piena Venezia L'esperienza di uno scrittore in vacanza con la famiglia Come è piena Venezia VENEZIA — La mia protesta è blanda, come posso esserlo io al mio tavolo impiegatizio. Ma Venezia, signor vigile, non mi è piaciuta, questa domenica. Sia chiaro: non ho niente contro il Palazzo Ducale. Anzi. Eppure il Canal Grande, a parte certi banchi di recipienti di plastica non biodegradabili, che da lontano sembrano famiglie di minuscole foche, continua ad esercitare il suo subdolo fascino. Eppure, guardi, la mia mezza giornata veneziana è stata uno sfacelo. Lei mi dice che ho gettato sui masegni di piazza San Marco uno buccia di banana. E' vero, verissimo. Ma si renda conto di tutto ciò che ha preceduto questo gesto poco civile e poco consono alle grisaglie che, da autunno a primavera, indosso con assoluto decoro. Partiamo dalla nostra città, mia moglie, il figlioletto decenne, e io, questa mattina all'alba. Il viaggio fu quasi normale, salvo l'enuresi di mio figlio, che ci spinse a qualche sosta imprevista. Giungemmo ai margini di Venezia, in un immenso garage isolano all'aperto, verso le dieoi. Fummo avvolti da una nuvola di zanzare, personaggi che offrivano i servizi più vari, gite nelle isole, acquisti sotto mercato di vetri pregiati e chincaglierie di ogni tipo e poi, udite, a mio figlio, di cui ho già dichiarato l'età, gli amori di una donna venale. Ma, già decotti dal sole lungo il ponte translagunare, dove attendemmo senza distinzione il pigro muoversi di una carovana di lumache automobilizzate, nulla obbiettammo se non vaghi segni negativi con gli indici stanchi. Tuttavia un tizio con un motoscafo giallo ci sedusse, ci scaricò in San Marco e ci addebitò un conticino superiore alle mie più oculate previsioni di ragioniere. Una buona fetta dei soldi destinati alla mattana veneziana era già sparita. Caro, mi permetta, signor vigile, ci siamo trovati in una piazza San Marco che pareva un serraglio: bestie di tutti i colori. Zingari in ottima salute su stampelle vezzose, pittori che dipingevano, con tutto il rispetto, come so dipingere io, carovane jugoslave, tedesche, americane, australiane e filippine che s'incrociavano calpestando gatti e colombi, in un brulichio di lombrichi appesantiti di vino e birra forse non eccelsi, se i lombrichi bevono, non lo so. In testa ad ogni carovana, una guida, con, alto sulla testa, come segnacolo per farsi vedere dalla sua paziente incialtronita tribù, un ombrellino, un righello da disegno, un carciofo surgelato, già sul punto di disidratarsi, o una di quelle aragoste plasticate che si vendono come souvenir di non si sa che cosa nei grill lungo le autostrade. Mia moglie, normalmente seria, era già con le scarpe in mano e i piedi di un usciere ministeriale prossimo alla pensione, il bimbo stava per cadere inebetito sotto il sole di mezzogiorno. « Miei cari », dissi risoluto, « adesso andiamo all'ombra: visitiamo un museo. Così avremo anche modo di imparare qualcosa sulla grande arte veneziana ». Non so come, ma il museo era chiuso. Qualcuno borbottò che forse un paio di guardiani erano in ferie, come giusto, e che quindi non si potevano abbandonare i più pimpanti capolavori agli sguardi rapaci e alle mani ancor più ladre dei primi o degli ultimi venuti.Mio figlio gemette: «Papà, avrei fame». «Fatti coraggio», risposi io, memore di una gita a Venezia compiuta quindici anni prima con il dopolavoro, « c'è una piccola birreria onesta qui a due passi ». La birreria c'era ancora, ma una coda famelica guatava i fortunati che già stavano mangiando strani ordigni che parevano dischi volanti o ufotutto, ma non pizze. Pazientammo, mia moglie era aggrappata al mio braccio come una claudicante congenita, il bambino tratteneva decorosamente le lacrime. Finalmente sedemmo: una pizza e una birra a testa che costarono come tre giorni di onesti pranzi e cene domestiche. Mia moglie ama soprattutto la frutta, ma la feci opportunamente desistere dall'idea di soddisfare sul posto il progetto che mi pareva del tutto insano. Comprammo una banana da un fruttivendolo: sciapa e sfibrata, ma pur sempre una banana, con quel paesaggio orientale, da mercato arabo, vista con la debita buccia, faceva una certa figura. La pagai a peso aureo. Pensai, quella maledetta buccia, di scaricarla in un cestino dei rifiuti. Ce n'erano molti, devo dire, ma tutti strapieni. Guardai in giro e mi accorsi che tra le migliaia di piedi che calpestavano gatti, colombi e persino qualche cane. loro deiezioni comprese, c'era di tutto: barattoli vuoti di birra, salviette di un ambi- guo color marrone, scatolette, già leccate dai gatti sopravvissuti al calpestio, di sardine, dentiere, puntali smarriti di bastone, involucri di pellicole fotografiche. Sapevo di sbagliare, ma fui fortemente tentato di non girare per chissà quante altre ore con la buccia, sempre più rancida, in mano. E così la lasciai cadere. Ora lei, qui nel comando della polizia urbana, signor vigile, vuole come si dice contravvenzionarmi. Mi sta bene. Ogni delitto va pagato. Ma lei si rende conto che mi priva della gita collettiva in gondola con il fisarmonicista che schicchera le note di « O sole mio »? Che io stanotte non potrò trascorrere qualche altra impagabile ora veneziana in una pensioncina furfantesca con i miei cari? Che, insomma, dovrò partire subito, se riuscirò a districare la mia auto da quella matassa arruffata di auto sudaticce che si sono ammucchiate al Tronchetto? Lei sa che tra i turisti, tre incivili persone non torneranno mai più in questa civilissima città? Mio figlio, che voleva vedere l'acqua, ha visto soltanto i recipienti di plastica, in un casino di motori che paiono quelli di Minneapolis. Mia moglie ha mangiato una banana pagando un prezzo spaventevole. Io, poi, come capo comitiva, sono una frana: non ho il carciofo né l'ombrellino né l'aragosta. Ora, a portafoglio quasi vuoto, fenderò come un rostro slabbrato la folla tormentosa, e tenendo per mano queste due creature alle quali forse sono indebitamente legato, sperando un giorno di arrivare in piazzale Roma, cioè a quello che qui, città internazionale, viene chiamato autopark. E, signore, la prego di perdonarmi di tutto. Non lo farò più. Non farò più niente di simile per il resto della mia vita, che mi auguro lunga, preveggente e tranquilla come la sua. Carlo Della Corte Vt-nezia. Turisti italiani e stranieri per le calli che conducono in piazza San Marco

Persone citate: Carlo Della Corte

Luoghi citati: Minneapolis, Venezia