Alpinismo come cultura di Massimo Mila

Alpinismo come cultura Alpinismo come cultura Se un pescatore scivola su una pietra viscida e annega, unanime è il coro di commiserazione. Se « vola » in parete e si fracassa le ossa un alpinista, il quale dopo tutto se ne andava in montagna per conto suo senza far male a nessuno (mentre il pescatore fa male ai pesci), sorgono commenti astiosi, volti a dimostrare che la disgrazia è colpa sua. « Ancora incidenti mortali sulle Alpi dovuti ad imprudenza », deplorava recentemente un giornale. Poi si andava avanti a leggere e si apprendeva che uno di questi « imprudenti » era stato colpito dal fulmine in cima all'Aiguille Verte! Colpa suprema, poi, quella di andare in montagna senza guida. Come se le guide ti riparassero dai fulmini e, purtroppo, non morissero in montagna anche loro: Emile Rey, Arthur Ottoz, Maurizio Bich, Panei e Gobbi, e tanti tanti altri valorosi. Per non parlare di casi inquietanti come la morte recente del settantenne Jean Juge, presidente dell'Unione Internazionale Associazioni Alpinistiche, abbandonato dalla sua guida svizzera sulla punta del Cervino in una notte di tormenta. Nessun dubbio che l'incomprensione sia la causa del malanimo con cui vengono accolte dagli estranei le notizie di sciagure alpine. E sotto sotto c'è un fondo di invidia. La gente non capisce che cosa diavolo spinga questi pazzi a rischiare la pelle tra crepacci e strapiombi, o nella migliore delle ipotesi a sopportare fatiche bestiali su per pendii massacranti, e sospetta — non a torto — che ci provino un gusto matto, che sperimentino voluttà segrete e piaceri negati al comune mortale. La riprovazione dell'alpinismo somiglia un poco a quella che il virtuoso borghese ha per il drogato: con una gran voglia inconfessata di sapere cosa prova e di conoscere i suoi paradisi artificiali. ** L'alpinismo è un fenomeno di cultura, sicché chi ci lascia le penne — si parla di alpinisti, non dello sprovveduto in scarpette da tennis che sdrucciola su un prato ripido per cogliere le stelle alpine — merita lo stesso rispetto dello scienziato che affronta consapevolmente il rischio di radiazioni mortali. L'alpinismo è una forma di conoscenza e — come vedremo — forma suprema e privilegiata. Rientra in quella branca del sapere che è la geografia, cioè la ricognizione sistematica, attraverso l'esplorazione, del pianeta su cui viviamo (naturalmente la stessa dignità si deve riconoscere, perfino con maggiore evidenza, alla speleologia). Non vai niente obiettare che ormai la Terra è conosciuta in ogni suo angolo, le montagne tutte scalate da ogni versante e che non essendoci più niente da scoprire l'alpinismo si è trasformato in un fenomeno di emulazione sportiva. Per quanto si sia pericolosamente assottigliato il filo che congiunge l'alpinismo all'esplorazione, rompersi non potrà mai, perché quella è la sua essenza. Che se ne renda conto o meno, il sestogradista che traccia una via a goccia d'acqua su una parete già scalata, partendo dieci metri più a destra della via di Tizio e venti metri a sinistra della via di Caio (vedi la Roda di Vael, le Nord delle Lavaredo e i piloni del Bianco), o quello che semplicemente raddrizza in parete un itinerario già aperto da altri, eliminandone qualche prudenziale zig-zag, è mosso dallo stesso impulso che spinse Cristoforo Colombo a « buscar el Levante por el Poniente » e Amerigo Vespucci ad esplorare l'America. Anche se occultato da un fitto manto di vanità mondana e d'ambizioncelle agonistiche, e perciò degenerato e indegno, è pur sempre lo spirito di Ulisse, lo spirito che fa del Wotan wagneriano un « Wanderer », un viandante, e lo spinge a muo¬ vdrecdrstsiaacg versi senza posa « sul dorso della Terra », e a interrogarla risvegliandola dal suo sonno eterno. Né vale ancora obiettare che anche le minime rettifiche d'itinerari superdifficili, già riservate ormai a pochi eletti, saranno un giorno o l'altro tutte esaurite, sicché l'alpinismo non si esplicherà più che in ripetizioni d'itinerari già aperti da altri, come del resto avviene ormai nella schiacciante maggioranza dei casi. Anche l'alpinismo di ripetizione, perfino il turismo, è esplorazione, a titolo individuale. Il genere umano nel suo insieme può avere esaurito la ricognizione del globo terrestre (il che è ancora da vedere), ma il principio dell'esplorazione sopravvive nel singolo, indistruttibile, come bisogno di conoscenza personale. M'importa assai che l'America l'abbia scoperta Cristoforo Colombo e l'interno dell'Africa l'abbiano frugato Stanley e Livingstone, e in Asia ci gironzolasse già Marco Polo. Voglio vederle io, voglio conoscere il Messico, il Sahara, la Nuova Guinea, l'Alaska e l'Himalaya: così m'imbarco in crociera con Franco Rosso e m'iscrivo ai trekking di Beppe Tenti. * ★ Stabilita la perennità della spinta conoscitiva che muove 10 scalatore di montagne, magari a sua insaputa, resta da spiegare perché questa forma di conoscenza sia la più alta, suprema e remunerativa che all'uomo sia concessa. Essa è l'unica che non avviene attraverso lo studio, a tavolino o in laboratorio, ma si esplica attraverso il fare. Si verifica pertanto nell'alpinismo quel merito supremo che Giovan Battista Vico riconosceva alla Storia sopra ogni altra forma del sapere e delle scienze. Nella Storia, e soltanto nella Storia, l'uomo è come Dio, perché fa e sa. Agisce, crea; e conosce quello che egli stesso ha creato. Il Vero e il Certo si convertono. La teoresi astratta si attua nella concretezza pratica del fare. Ma nel pensiero del Vico questa dignità della Storia valeva solo globalmente, per l'Uomo inteso come genere umano. Di fatto, poi, anche nella Storia, altri è chi fa — Napoleone — altri chi conosce — Erodoto, Tito Livio, Machiavelli. (Salvo rare eccezioni come Senofonte o Giulio Cesare, sempre che a questi memorialisti si voglia riconoscere altezza di storici. E in ogni caso si tratta pur sempre di due momenti distinti: prima si fa e poi si conosce). Invece nell'alpinista è l'individuo che riunisce in sé le categorie del pensiero e dell'a zione, duplice gloria dell'Uomo, ma in lui sempre dolorosamente distinte, con la sola eccezione della Storia, compresenti solamente in Dio. L'alpinista è colui che conosce agendo. Per lui il fare è sapere. (Dice molto, al riguardo, la tipica locuzione degli alpinisti: « Ho fatto il Cervino, ho fatto 11 Dente del Gigante ». Come sempre il linguaggio, a saperlo intendere e adoperate, è spia della realtà). L'alpinista sulle vette si sente più vicino a Dio. Così suona il detto di anime candide e simpatiche, purtroppo usurpato spesso da fior di cannibali che amano gozzovigliare in cima al Musine o al Rocciamelone, estraendo bottiglie e manicaretti da enormi sacchi, e poi tornano giù a raccontare che là si sentivano vicini a Dio. Non è questione di essere vicini. Se Dio è colui che conosce in quanto crea, se Dio è l'essere nel quale pensiero e azione coincidono, allora l'alpinista, nella sua concomitanza di conoscere e fare, è pari a un dio. E scusate se è poco. Non c'è da stupire se gli esclusi ne sono invidiosi, e appena un alpinista cade, dal fondo delle loro pianure, gli rinfacciano imprudenza e presunzione. Massimo Mila Alpinisti sul ghiacciaio del Freney (Monte Bianco) durante una recente scalata

Luoghi citati: Africa, Alaska, America, Asia, Messico, Nuova Guinea