Era l'uomo di ferro della grande Juve di Carlo Moriondo

Era l'uomo di ferro della grande Juve E' MORTO MARIO VARGLIEN, MEDIANO NEGLI ANNI 20 E 30 Era l'uomo di ferro della grande Juve Ha giocato ai tempi di Munerati e Cevenini ed è stato in squadra anche con Combi Prima ci fu il calcio dell'età della pietra, o — se vogliamo essere meno brutali — il calcio dell'era mitologica. Insomma il football degli Ara, dei De Vecchi, dei Leone, quando si giocava sulle piazze d'armi o nei velodromi e gli spettatori erano spesso poche centinaia. Ma poi la pianta crebbe e si giunse al calcio dell'età di mezzo: quello dei Cevenini, dei Della Valle, e — appunto — dei Mario Varglien. C'erano già stadi in cemento, gli spettatori erano migliaia, si vedeva sventolare sulle gradinate qualche bandiera; di quando in quando la folla osava fischiare l'arbitro e qualcuno, meno educato degli altri, si azzardava a gridare come supremo insulto: «Arbitro, occhiali! ». Siamo insomma a quel periodo tra il Venti e il Trenta, in cui il football dilagò in tutta Italia, scendendo a macchia d'olio dal Nord verso il Sud, fino a comprendere nel girone nazionale nientemeno che il derelitto Napoli. Mario Varglien giocava nella Juventus assieme a gente che si chiamava Barale e Munerati, Cevenini e Vojak. Poi c'erano anche nomi che di lì a poco sarebbero diventati celebri, come Combi, Rosetta e Caligaris, gente che resistette in bianconero e in azzurro fino ai campionati del mondo del 1934 e si portò a casa quella prima coppa mondiale. A fianco di Varglien, che giocava mediano, c'era Bigatto, che era il capitano della squadra: un tipo con i baffi che sembrava ritagliato nel legno, ma assolutamente infrangibile: giocava sempre con una reticella in testa per nascondere la calvizie, e portava i pantaloncini fino al ginocchio, perché gli sembrava impudico far vedere le cosce: era ricco di suo, dalla squadra non prase mai una lira, gli sarebbe sembrata cosa vergognosa farsi pagare per divertirsi. Accanto a lui c'era il centromediano Viola, che, nonostante il nome, era ungherese: anch'egli spigoloso e cattivo la sua parte. Poi giunse Mario Varglien e la fama della difesa bianconera si ingigantì. Forse nessuno sport come il calcio vive di tante tradizioni e di tanti luoghi comuni: in base a questi, il Torino è sempre soprattutto una squadra d'attacco, una macchina da gol, la Juventus è invece una squadra da difesa, una fortezza imprendibile. Non sempre questo è stato vero, ma allora era esatto. Dietro, c'erano Combi, Rosetta e Caligaris; a metà campo c'era, con gli altri, Varglien. E gli attaccanti avversari venivano frantumati, sbriciolati, invitati a desistere con maniere piuttosto energiche. Combi urlava a Rosetta (lo sentivamo benissimo, perché noi ragazzi, sul campo di corso Marsiglia, eravamo a tre metri dal terreno di gioco): « Lasslu nen tire, Viri, camplu giù » (« non lasciarlo tirare, Viri, gettalo per terra»; e Rosetta stendeva l'avversario in modo così elegante che spesso l'arbitro puniva quell'altro che era volato per terra e non il serafico « Viri » Rosetta. Varglien, forse, non aveva di queste finezze. Né avrebbe potuto, essendo costruito in calcestruzzo e non in gomma. Ma attorno a sé faceva il vuoto. Già quel suo volto segnato, sempre rosso, che diventava paonazzo sotto lo sforzo, con quei denti digrignanti, quelle rughe profonde attorno alla bocca, incuteva soggezione. Ma poi era il suo modo di avventarsi — o la va o la spacca, sotto ragazzi che qui si vince o si muore — che faceva paura. Recentemente gli avevo chiesto se era più pericoloso giocare allora oppure oggi. E aveva risposto senza esitazioni: « Molto più pericoloso allora. Vuol mettere? Adesso i giocatori si controllano da pochi centimetri di distanza, i calcetti non possono avere forza; ma allora, ai miei tempi, senza pensarci tanto, con quelle marcature alla larga, da metri di distanza, bisognava prendere la rincorsa e piombare addosso all'avversario di slancio, o piede 0 palla, e via... ». E di nuovo, vedendolo mimare la scena in piena via Roma, tra i passanti stupiti, ci sembrava di rivivere quei momenti magici sul campo di corso Marsiglia, quando lui, Mario, rimasto ultimo davanti a Combi, piombava come una mazza sull'avversario, «opèo baia », — «o il piede o il pallone » — o emergeva da una mischia furibonda sotto porta trascinandosi dietro un paio di attaccanti che gli erano rimasti avviticchiati... Una sola volta fu chiamato in Nazionale. Non era facile, allora, andare in azzurro. C'erano assi in abbondanza, la difficoltà stava solo nella scelta. I vari commissari tecnici, da Rangone a Pozzo, gli preferivano sempre gente di maggior classe, i Ferraris, i Pizziolo, 1 Pitto. Varglien si doleva di questo fatto: « Non sanno che la Juve è un blocco, se portassero anche me sempre in Nazionale farei vedere come è il nostro gioco... ». E infatti, non in azzurro, ma in bianconero inanellò trionfi e scudetti su scudetti. C'erano, sì, il Torino di Baloncieri e di Libonatti, il Genoa di De Pra e Urlando, l'Internazionale di Meazza e di Serantoni, il Bologna di Schiavio e di Monzeglio, ma quando spuntò la gigantesca Juve del cinquennio mise tutti d'accordo. Una squadra formidabile, in cui persino Mario Varglien, giocatore tutto impeto e rabbia, riuscì ad ammorbidire il suo gioco per compene¬ trarlo con quello fitto ed elegante che i compagni gli tessevano attorno: assieme ai geroglifici di Orsi, agli a solo di Ferrari, alla calma possanza di Monti, ai funanbolismi di Cesarinì, alle acrobazie di Sernagiotto, agli sfarfalla di Borei II, alla triplice alleanza Combi-Rosetta-Caligaris, eterni e impassibili come una Trimurti indiana, ebbero smalto anche le ruvide entrate di Mario Varglien, quella sua incredibile capacità di combattere, preferibilmente nel fango, per novanta minuti filati. Si era passati intanto dal Campetto di corso Marsiglia — circondato da uno steccato alto sì e no un metro (noi ragazzi ci appoggiavamo le braccia sopra: sovente il pallone, rilanciato da un terzino, sorvolava le gradinate e finiva fuori, tra i prati...) — al gigantesco stadio che dura tuttora. Il calcio era diventato un affare nazionale e la Juventus continuava a vincere. Se si devono cercare le ragioni profonde della popolarità della « vecchia signora » forse esse possono essere individuate proprio in quel pe¬ riodo da età dell'oro, quando il calcio, appena assurto alla ribalta nazionale, aveva lei come unica dominatrice ad affascinare le folle crescenti. Attorno a Varglien e alla difesa, l'avvocato Edoardo Agnelli e l'allenatore Carcano avevano chiamato quei nomi che abbiamo già detto, prendendoli anche dal Sud America, come Orsi, detto « la stella di Amsterdam » e Monti, detto Pata dura. Modesto, infaticabile, mite fuori campo per quanto era terribile sul tappeto erboso, Varglien restò in quella accolta di supercampioni fino al 1935-36, quando si spense adagio adagio la gloria bianconera. Fece in tempo a vedere al suo fianco e a giocarvi assieme il fratello Varglien II. cioè Giovanni, chiamato Nini, un magnifico atleta che sarebbe riuscito bene in qualsiasi sport. Lui, Mario, continuò a battersi fino a che gli rimase una minima possibilità di essere utile alla squadra. Cioè alla « sua » squadra, cioè alla Juve, perché non gli sfiorò mai il cervello la pazza idea di cambiare società. Carlo Moriondo

Luoghi citati: Amsterdam, Italia, Napoli, Sud America