La "liretta,, ci porta al sottosviluppo di Mario Salvatorelli

La "liretta,, ci porta al sottosviluppo Se dimentichiamo l'Europa La "liretta,, ci porta al sottosviluppo C'era una volta il contadino Bertoldo — semplice, ma carico di antica saggezza — che rideva quando il tempo era brutto e piangeva quand'era bello, perché pensava a quando sarebbe cambiato, da brutto a bello, e viceversa, com'era sempre successo. Dopo quanto è accaduto in Italia dall'inizio dell'anno, sarà opportuno l'are come Bertoldo, e se non proprio ridere, almeno sorridere, in attesa del bello. E' vero che politica, economia e criminalità sono fenomeni naturali fino a un certo punto, e non è detto che il brutto e il bello si alternino come capita per il tempo. Di «naturale», finora, c'è stata solo la morte di Paolo VI, e anch'essa giunta inattesa. D'altra parte, quando ci si regge su una maggioranza parlamentare che si avvicina al 90 per cento, per un governo è difficile capire fin dove questa maggioranza rappresenti un sostegno, e a che punto si trasformi in un abbraccio soffocante. Di fronte alla necessità di fare ciò che dev'essere gradito ai nove decimi dei parlamentari, o di non fare ciò che può esser loro sgradito, un governo è tentato di scegliere la seconda strada. Viene in mente la sequenza di un film francese di quarant'anni fa che si svolgeva in una casa di riposo per attori ed era intitolato: «I prigionieri del sogno». E' notte, le porte delle camere sono chiuse, e nel lungo corridoio che le separa passa un turbine di applausi. Gli ex attori dormono e sognano il loro pubblico d'un tempo. Anche questo governo poteva essere indotto a dormire, contando sugli applausi del «suo Parlamento», prigioniero non del sogno, ma del compromesso. Si deve dargli atto di aver fatto il possibile per sottrarsi a questa tentazione, e portare avanti il suo mandato. Cinque mesi, che scadranno mercoledì sono pochi, e si riducono ancora se si contano solo i giorni che non sono stati assorbiti dagli eventi eccezionali. Sono insufficienti, in ogni caso, per stendere un primo bilancio. Ma bastano per cogliere tendenze di fondo non del tutto rassicuranti, come la preminenza accordata al restauro della facciata esterna — rispetto a quella interna — del Paese, e la precedenza data, almeno nelle intenzioni, alla cura del disavanzo della pubblica amministrazione (la differenza in meno delle entrate rispetto alle spese), sul rilancio del sistema produttivo e dell'occupazione. Non c'è dubbio che sia importante la facciata esterna d'un Paese, rappresentata dai suoi conti con l'estero e dalle sue riserve d'oro e di valuta. Su Stampa Sera del 3 luglio scorso, avendo a disposizione solo i dati ufficiali del primo trimestre e confrontandoli con quelli dello stesso periodo del 1977, scrivevamo che «se tanto mi dà tanto, alla fine di quest'anno potremo registrare un attivo record della bilancia dei pagamenti: 4000-4500 miliardi di lire». La situazione si è ancora rafforzata, e il primo semestre si è chiuso con un attivo di oltre 2400 miliardi di lire, contro un passivo di 1700 miliardi l'anno scorso. Anche le riserve continuano ad aumentare. Non sono più «al lumicino», come ha osservato Andreotti, facendo otto giorni fa alla televisione un consuntivo dei due anni della sua permanenza a Palazzo Chigi (con il precedente governo e quello attuale), e oggi il loro totale netto supera i 23 miliardi di dollari, dei quali circa 13 in oro, il cui prezzo continua a salire, compensando quella parte di riserve in dollari che, invece, attualmente si svaluta. Si deve riconoscere, pertanto, che il restauro della fac ciata esterna è perfettamente riuscito. Non si comprende, a questo punto, perché non sol tanto non si utilizzi questo risultato per un rilancio dell'economia, ma neppure per so stenere le quotazioni della lira nei confronti non del dollaro (è la moneta americana ad aver bisogno di sostegno) ma delle valute attualmente più forti. Abbiamo lasciato invece, che il franco francese salisse a 195 lire, il marco tedesco a 415, il franco svizzero oltre quota 500 (ma con un franco in Svizzera non si acquistano merci o servizi neppure per 300 lire di merci e servizi analoghi in Italia). Persino la sterlina britannica è salita a 1630 lire. Nei Paesi che battono queste quattro monete mandiamo oltre il 40 per cento delle nostre esportazioni, ma ne riceviamo anche il 35 per cento delle nostre importazioni. Nel gcfcvqsssmpnmtdgpsz gioco complesso del commercio con l'estero — di prezzi fissati con o senza clausole di cambio, in questa o in quella valuta — può darsi che da quésta tempesta che soffia sui mercati dei cambi ne possiamo trarre vantaggio. Ma sul piano psicologico, che non manca d'influenzare quello pratico (ma è un effetto che non rientra nei libri di economia e di finanza), chi ci perde è la lira, sempre più «liretta», agli occhi degli italiani e degli stranieri, con conseguenze negative anche nella lotta contro l'inflazione. Non si tratta di scegliere tra riduzione del disavanzo pubblico e rilancio dell'economia, ma di rifiutare questa scelta, e agire nelle due direzioni. Negli ultimi dodici mesi i disoccupati sono aumentati del 17 per cento, da un milione e un quarto a oltre un milione e mezzo. Se non v'è certezza che il piano triennale del governo riuscirà a ridurne drasticamente il numero, sarà difficile far accettare ai sindacati, in occasione dei prossimi rinnovi contrattuali, la rinuncia ad aumenti salariali che eccedano il rincaro del costo della vita. Apriamo le finestre, e guardiamo ciò che succede fuori: la Germania Occidentale e gli Stati Uniti che puntano sui settori di più elevata tecnologia, e sul rinnovamento di quelli tradizionali; la Francia che rafforza le sue posizioni in industrie portanti; il Giappone che raccoglie la sfida europea e americana alle sue esportazioni; la Comunità europea tutta che ha ripreso a muoversi verso gli obiettivi di una più stretta ed efficace cooperazione monetaria e di una politica industriale comune. Il vero problema è di allinearci alla realtà dei nostri «partners» europei. Ma fino a che avremo industrie fondamentali nelle quali, a parità di numero di occupati, si fabbrica il 30-40 per cento in meno di unità di prodotto delle analoghe industrie estere, questo allineamento rischia di scomporsi, fino a scomparire. A meno che governo, imprese e sindacati (la «trilaterale» decisiva), trovino insieme i punti dove occorre esercitare, e subito, il massimo sforzo, per impedire che l'Italia cada nel sottosviluppo. Settembre dovrebbe vedere rilancio dell'edilizia residenziale e di lavori pubblici, una più incisiva politica meridionalistica, l'avvio della costruzione di grandi centrali nucleari, qualche passo avanti nella ristrutturazione dell'industria chimica, il consolidamento dell'accenno di ripresa della siderurgia. Se tutto ciò — e altro ancora — ci sarà, se i rinnovi contrattuali si risolveranno senza eccessive tensioni, e si saprà volgere, anche a uso interno, il momento favorevole dei conti con l'estero, l'autunno prossimo potrebbe registrare l'uscita dal tunnel della crisi e l'inizio della definitiva manovra d'aggancio all'Europa. Mario Salvatorelli

Persone citate: Andreotti, Paolo Vi

Luoghi citati: Europa, Francia, Germania Occidentale, Giappone, Italia, Stati Uniti, Svizzera