E morto Kenyatta, il leader che sconfisse il colonialismo di Mario Ciriello

E morto Kenyatta, il leader che sconfisse il colonialismo "Il padre del Kenya libero,, aveva 85 anni E morto Kenyatta, il leader che sconfisse il colonialismo Dalla guerriglia "mau-mau" contro gl'inglesi, alla discussa leadership stabilita con il prestigio dell'eroico combattente indipendentista - La successione nello scacchiere africano NAIROBI — Il presidente keniano Jomo Kenyatta è morto stanotte «serenamente durante il sonno» — come ha precisato un comunicato del governo — nella sua casa di Mombasa sulla costa del Kenya. Nei dare la notizia il governo ha invitato tutti i cittadini a rimanere calmi ed ha ordinato l'esposizione a mezz'asta di tutte le bandiere degli edifici pubblici. Al momento non è ancora stato reso noto il programma per i funerali, ma si ritiene che la salma sarà tumulata a Gatundu, nella regione che lo vide nascere (a 50 chilometri da Nairobi). La presidenza del Kenya viene assunta temporaneamente da Daniel Arap Moi di 54 anni, che Kenyatta nominò vicepresidente nel 1967 e che è anche ministro dell'Interno. La costituzione prevede l'elezione del nuovo presidente nel giro di 50 giorni. (Ap) Si è chiusa a Mombasa, sull'Oceano Indiano, la lunga vita di un grande leader africano, Jomo Kenyatta. Aveva 85 anni (ma l'età non è sicura, manca un certificato di nascita) ed è morto nel sonno, all'alba di ieri mattina, martedì, senza sofferenze, senza drammatici allarmi. Aveva già subito alcuni attacchi di cuore, da tempo la sua salute esigeva vigilanza costante, ma il presidente della Repubblica kenyota era ancora uomo attivo e attento: poche ore prima del suo decesso, nel pomeriggio di lunedì, aveva presieduto una riunione di tutti gli ambasciatori stranieri a Nairobi. Era veramente il « padre della patria », era il Kenya. Ne era presidente dal 12 dicembre '63, data dell'indipendenza. Parlare di Kenyatta (il cui vero nome era Kamau wa Ngengi) significa parlare di un personaggio straordinario, di eccezionali qualità politiche ed intellettuali, con una vita che anche i biografi più pacati non esitano a definire romanzesca. Ma significa parlare pure del Kenya e dell'Africa tutta, perché quest'uomo, nipote di uno stregone di villaggio, ha dominato la vita della sua nazione (forse fin troppo) e ha sostenuto una parte maestosa nell'evoluzione del Continente Nero, soprattutto negli Anni Sessanta, nel periodo post-coloniale. Chiamato Burning Spear, « Lancia Ardente », Kenyatta è stato un rivoluzionario e un moderato, un comunista, un socialista e un pragmatico, ha incarnato, con Kwame Nkrumah, della Costa d'Oro, morto in esilio nel 72, il nazionalismo africano. Che accadrà adesso in Kenya? La scomparsa di Kenyatta lascia un vuoto pericoloso. Molte sono le previsioni e tutte molto caute. I poteri sono stati assunti, come vuole la Costituzione, dal vicepresidente Daniel Arap Moi, che è pure il favorito nelle elezioni presidenziali che dovrebbero svolgersi entro cinquanta giorni. Buone possibilità di successo sembra avere anche il ministro degli Esteri Njorogu Mungai. Non si può affatto escludere che il Kenya superi la scossa senza grandi difficoltà, che accetti senza laceranti conflitti una nuova leadership e una nuova distribuzione del potere: dopo tutto, è tra i Paesi politicamente più maturi dell'Africa, ha un'economia abbastanza progredita, ha istituzioni relativamente robuste. Ma molte sono le incognite e, naturalmente, data l'importanza del Kenya e la sua posizione strategica, non mancano i timori. I pessimisti ricordano le divisioni tribali, le tentazioni ideologiche, l'isterilimento della vita politica soffocata dalla lunga e senza dubbio paternalistica supremazia di Kenyatta (il quale non esitò in passato a ordinare l'arresto di alcuni deputati: esiste una Camera dei rappresentanti, ma vi siede un unico partito, il Kanu, l'Unione nazionale africana del Kenya) e infine la diffusissima corruzione. A inasprire quest'ultima piaga — si legge — avrebbe contribuito anche la moglie di Kenyatta, Marna Ngina, una donna di 41 anni, trasformatasi, con la sua famiglia, in un colossale business di traffici più o meno legali. II padre del piccolo Kamau wtdsntnbKplqKadg wa Ngengi era un povero contadino della tribù kikuyu, figlio di uno stregone. (I kikuyu costituiscono la tribù kenyota più numerosa, ed anche la più intraprendente. Daniel Arap Moi non è un kikuyu, e ciò potrebbe impedirgli di succedere a Kenyatta. Le altre tribù più importanti sono quelle dei luo, dei luhya e dei kamba). Nel 1909, quando aveva circa 18 anni, Kamau wa Ngengi, il quale aveva aiutato fino allora il padre nei campi o aveva fatto il pastore, prese una decisione che cambiò la sua vita. Raggiunse camminando una Missione della Chiesa di Scozia e chiese che gl'insegnassero a leggere e a scrivere. Imparò prestissimo, e imparò anche a fare il falegname. Nel 1914, ricevette il battesimo e il nome di Johnstone Kamau. Nel 1922, fece la conoscenza della politica. In quell'anno, infatti, il futuro Jomo Kenyatta aderì a una nuova ed esitante organizzazione, la Kikuyu Association. Riunioni, discorsi, sogni: ma non si poteva fare molto, il Kenya era allora una colonia britannica e una colonia tutta particolare, dove il potere era saldamente in pugno dei latifondisti britannici, gente dura, su cui neppure il governo di Londra riusciva ad esercitare molta influenza. Nel 1932, Kenyatta partiva per 1' Inghilterra, dove riceveva la sua prima vera educazione politica. Ed era un'educazione di prim'ordine. Veniva accolto nei migliori ambienti, e salotti, socialisti, come quello di Sidney e Beatrice Webb: apprendeva gli insegnamenti della chiesa quacchera: imparava l'arte del giornalismo sotto la guida di C.P. Scott, il famoso direttore del « Manchester Guardian ». Come Nkrumah, anche Kenyatta esplorava, ma senza troppo innamorarsene, le attrazioni del comunismo. Le studiò prima a Londra, con l'aiuto del comunista George Padmore, indi brevemente a Mosca, negli Anni Trenta, a una « scuola di rivoluzione ». Finita la guerra, durante la quale lavorò in una fattoria inglese, nella campagna del Sussex, Kenyatta tornò a Nairobi. Le autorità britanniche non riuscivano a valutare, e neppure a capire, questo strano personaggio, così come non riuscivano a capire molti dei nuovi nazionalisti del Commonwealth. Avevano dinanzi a sé il nipote di uno stregone, che parlava il linguaggio del tribalismo africano più pugnace, ma che allo stesso tempo manifestava le idee della chiesa scozzese, dei quaccheri, della London School of Economics, dei laboristi. Eletto presidente della Kenya African Union, Jomo diveniva rapidamente il simbolo delle aspirazioni keniote. Poi, d'improvviso, orrenda e tremenda, si spalancò la voragine dell'insurrezione maumau. Si dissolse ogni possibilità di evoluzione pacifica. I bianchi compravano le terre migliori e i kikuyu si sentivano pertanto derubati da quegli europei che, allo stesso tempo, negavano loro ogni progresso politico. Fu facile per una rete di società segrete kikuyu sfruttare la collera tribale, scatenare una guerriglia feroce. Fu una lotta senza pietà: africani e inglesi agirono con pari brutalità. Morirono quasi quattordicimila persone, in maggioranza negri, uccisi o dai kikuyu o dai britannici. Circa un migliaio di mau-mau furono impiccati nelle carceri di Nairobi: ottantamila kikuyu furono rinchiusi in campi di concentramento. Tra i condannati, all'inizio degli Anni Cinquanta, ci fu anche Kenyatta. Il suo processo evocò molti dubbi, pure in Inghilterra: l'accusato sostenne sempre di non aver mai istigato i kikuyu all'insurrezione armata; ma, in quel clima, una sentenza « esemplare » era inevitabile. Sette anni di carcere, indi tre di libertà severamente limitata. Ancora nel 1960, sir Patrick Renison, governatore del Kenya, descriveva Kenyatta come un « leader che può solo condurre alle tenebre e alla morte». Un anno dopo, sir Patrick era stato trasferito e Kenyatta era a capo del governo. Nel dicembre '62, il nipote dello stregone assumeva la guida della sua nazione ora indipendente. Mario Ciriello Kenyatta sul trono, in una fotografia di qualche tempo fa