La nostra storia è più complessa di Luigi Albertini

La nostra storia è più complessa VITA ITALIANA SECONDO MACK SMITH La nostra storia è più complessa Denis Mack Smith non ama Luigi Albertini. E si spiega. Radi-, cale anti-Cavour e tutto Garibaldi negli studi sul Risorgimento, studi venati da un'ostentata iconoclastia, non poteva trasformarsi in liberale filo-albertiniano nei saggi sull'Italia del Novecento. Neanche l'avversione a GioJltti, nutrita con intemperanze caratteristiche del primo Salvemini, poteva bastare ad avvicinare lo storico inglese non-conformista, ereticale, revisionista al grande antagonista dello statista di Drenerò che sedette per un quarto di secolo sulla poltrona di via Solferino: non soltanto direttore ma direttore-gerente, direttore-monarca. La scelta di Mack Smith per una storia del "Corriere» nell'ultimo secolo della vita italiana non può quindi non essere giudicata «brillante», ai limiti dell'originalità. Una «trovata», in gergo editoriale. Tutti i valori coltivati dal «Corriere* albertiniano con una punta di devozione quiritaria e d'intransigenza religiosa sentiti come estranei od avversari dallo storico del garibaldinismo e dell'iniziativa popolare, dal «demitizzatore» di, tanta parre del nostro Risorgimento; la concezione altera e orgogliosa da destra storica, che compenetrò i momenti più alti della parabola del grande quotidiano lombardo, dalla lotta a Caspi alla battaglia contro Giolitti, estranea ai filoni scavati e spesso illuminati dalle scintillanti indagini di Mack Smith. E' vero: l'incarico affidato dall'editore Rizzoli a Denis Mack Smith — un lavoratore straordinario, accanito, un libro o più ogni anno — era diverso e sotto molti aspetti più originale, più suggestivo. Non tanto la storia del «Corriere», nelle sue trasformazioni, nei trapassi di proprietà, nelle fluttuazioni e oscillazioni politiche, nelle sue contraddizioni e nelle sue grandezze e ■niserie, quanto La storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il Corriere (così s'intitola il volumone rizzoliano, gemello dell'accurata ricerca di Glauco Licata). Una rilettura attenta e puntigliosa di tutte le annate del quotidiano fondato da Eugenio Torelli Viollier (che non a caso, nel suo risentimento anti-albertiniano, l'autore proclama con qualche ingiustizia «ilpiù grande direttore del giornale») per trarne uno spaccato della vita italiana, una specie di consuntivo dell'evoluzione e involuzione nazionale. Mack Smith è riuscito nel suo compito? Non è una risposta facile. Il suo libro, scritto a tempo di record rispetto alle difficoltà e alle insidie d'una simile ricerca, si legge volentieri, è pieno di osservazioni stimolanti, di analisi penetranti, è sufficientemente obiettivo nella parte finale che ci riguarda da vicino. Quello che manca è proprio il quadro complessivo, e del peso del «Corriere" nella vita italiana e delle metamorfosi della società italiana viste attraverso il «Corriere». Sono tante schede che l'autore ha raccolto, ha minuziosamente collezionato, ha spesso affiancato per affinità di argomento e talvolta di umore, ma a tale complesso mosaico manca il respiro della sintesi, quel senso d'una storia rivissuta e riposseduta dall'interno, che pure è caratteristico di altri libri anche parziali o partigiani dello stesso autore (si pensi al Cavour e Garibaldi). L'amico Mack Smith, che proprio io invitai dieci'anni fa a collaborare al «Corriere» (quasi ad apportare a quel giornale una voce che gli era del tutto estranea, una tradizione di pensiero e di studi antitetica agli idoli o ai tabù di via Solferino) mi perdonerà se osservo che tutta l'impalcatura del suo la•voro risente d'una precisa origine, il «lavoro su commissione». Non nasce, questa storia o nuova storia del «Corriere», da una scelta di Mack Smith, da un suo bisogno irresistibile, da una sua opzione prepotente; è un lavoro di artigianato storiografico condotto con tutte le sottigliezze e gli accorgimenti del mestiere ma ravvivato troppo spesso da ingiustizie, da omissioni, da dimenticanze, da rovesciamenti anche arbitrari di tesi o versioni tradizionali. Che costituiscono, al di là dell'apparente completezza cronachistica, il sale dell'opera. Un esempio. Nella sua istintiva avversione a Luigi Albertini, nella sua naturale repugnanza al «mito» di via Solferino (quello che Corrado Alvaro ha descritto in pagine insuperabili), Mack Smith è portato a calcare la mano sulle debolezze e sugli errori di valutazione rispetto al fascismo da parte di Albertini prima della marcia su Roma, soprattutto nel periodo che va dal fallimento dell'occupazione delle fabbriche alla consumazione dell'illegalismo squadrista avallata dalla monarchia. Chi ricostruisse la fatale giornata del 28 ottobre 1922 «vista dal Corriere» solo attraverso l'indagine dello storico di Oxford rischierebbe di cadere in un equivoco pericoloso, favorito dal fatto che nella collezione del quotidiano milanese — caso unico nell'area dei quotidiani d'informazione — manca proprio la copia del 29 ottobre, mai pubblicata. «Quando Mussolini gli intimò di non fare uscire il giornale il giorno 29, Albertini debolmente si piegò» (pag. 267). E' vero proprio il contrario. Albertini si piegò così poco all'ingiunzione fascista che rifiutò di accogliere un appello a fare uscire il giornale rivoltogli personalmente da Mussolini nella tarda serata del 28 ottobre. Fermiamoci un momento sulla vicenda. Albertini aveva effettivamente perseguito nei mesi di quella tragica estate '22 il piano, che poi si rivelerà illusorio, di «costtruzionalizzare» il fascismo, d'inserirlo nell'alveo della legalità liberale e risorgimentale. Fu un piano condiviso da larga parte della classe dirigente, non escluso Giolitti, ma con accenti e intonazioni diverse nei protagonisti del mondo liberale. In Albertini più ferma che in tutti gli altri — con la sola eccezione di Amendola, a lui vicinissimo — la difesa della legalità, la pregiudiziale della rinuncia allo squadrismo e alla violenza. Non a caso il «Corriere» del 28 ottobre esce con un fondo di «ferma protesta» contro l'illegalismo fascista volto a mettere in scacco, con la già avviata marcia su Roma, gli organi costituzionali dello Stato. E' l'invito formale al re e a Facta a dichiarare lo stato d'assedio, a fermare la mano dei rivoltosi. «Il colpo di Stato fascista — si legge nell'editoriale — è in via d'esecuzione. Il governo dichiara di aver preso le misure necessarie per impedire che il tentativo riesca. Noi speriamo che queste misure siano sufficienti». E, quasi a segnare il confine fra le due Italie che sempre aveva caratterizzato Albertini, l'Italia cavouriana e l'Italia insurrezionale o tendenzialmente illegalista, l'editoriale del «Corriere» incalzava: «Noi ci auguriamo con tutta l'anima nostra che una tradizione di partigianesimo rivoluzionarie, non penetri nella storia del paese ch£ vide Garibaldi fare abbassare i fuetti dei suoi compagni avanti ai soldati della nazione..,*. Mack Smith, innamorato di Garibaldi, s'è lasciato sfuggire l'occasione d'una opportuna citazione garibaldina. La reazione dei fascisti al fondo del «Corriere» fu durissima. Il comando deile squadre era allogato in un edificio vicinissimo al palazzo di via Solferino; gruppi di «commandos» cominciarono a minacciare la redazione. Dalla federazione dei fasci partì l'intimazione a non uscire, il giorno successivo, sia per il «Corriere» sia per ['«Avanti!» e la «Giustizia»: i solchi col socialismo erano ormai colmati dai fatti, il «Secolo», una volta presidio del mondo democratico-radicale, riceveva disco verde per i suoi contorsionismi filomussoliniani. Sbandamento e preoccupazione nelle sfere dirigenti, per l'«ukase» dei fasci. Mussolini, in quel pomeriggio del 28 ottobre, non è ancora capo del governo, è solo direttore del «Popolo d'Italia» Non ha preso il vagone-letto per Roma, soltanto prenotato. Si accavallano le voci di soluzioni in termedie, Salandra - Mussolini o Giolitti - Mussolini. Giolitti, che ha festeggiato il giorno avanti l'ottantesimo compleanno, è indeciso, attende a Cavour un'eventuale chiamata del re. Il prefetto di Milano, Lusignoli, è il trait d'union fra il fascismo incalzante e lo Stato, o quello che ne rimane. Il veto altezzoso delle squadre minaccia il suo piano; la prefettura fail possibile perché il «no» al «Corriere» sia revocato. Lusignoli raggiunge Mussolini, lo prega di mettersi in contatto col «collega» direttore del «Corriere». I rapporti fra i due direttori sono stati scarsi e sempre difficili: una radicale antitesi di temperamento e di stile, il fondo plebeo dell'ex socialista contrapposto alla linea «ricasoliana» di Albertini. Mussolini vorrebbe che fosse Albertini a telefonargli: pronto a dargli via libera per l'uscita del «Corriere». Albertini è inflessibile; alla fine è Mussolini che cede. L'uomo, che il giorno dopo riceverà dal sovrano a Roma l'«incarico», si fa per dire, di formare il governo, cioè la legittimazione della violenza, lo chiama a casa, alle 20,45, chiede esplicitamente all'odiato dirimpettaio di uscire, gli prospetta generiche garanzie. Albertini è irremovibile; non ritiene le garanzie offerte sufficienti; altre più specifiche non verranno. E' il «Corriere» che alla fine decide — sono le 23,30 — di non uscire, quasi a segnare col suo silenzio il Varco fra le due stagioni della vita italiana. Ecco un capitolo importante della storia del «Corriere», e della storia d'Italia, che il lettore di Mack Smith non riuscirebbe a ricostruire nelle esatte, rivelatrici proporzioni. E' la premessa indispensabile per capire quello' che avverrà poi, la coraggiosa resistenza del «Corriere» alla manomissione totalitaria, la lotta ferma del giornale contro la legge Acerbo, l'atteggiamento inflessibile durante i mesi del delitto Matteotti, l'appoggio all'Aventino e ad Amendola, l'estromissione finale dei fratelli Albertini dalla guida del «Corriere» con un artificio giuridico, riflesso di un'imposizione dei potenti. Cesare Rossi, che se ne intendeva, dirà una volta che Albertini era l'uomo più temuto e detestato da Mussolini. E quando il giornale evitò di appoggiare il blocco nazionale nelle elezioni della primavera del '24, e resistè a tutte le pressioni e intimidazioni in tal senso, non escluse quelle del mondo industriale che pure qualche legame aveva col giornale di via Solferino, Mussolini confermò al suo fedelissimo Cesare Rossi che c'era solo una strada per piegare l'opposizione del «Corriere», «fargli spezzare la schiena». Esattamente la cura somministrata a Matteotti. « Voglio veder rotolare un cranio lucido senatoriale in piazza Colonna»: così si espresse il «Duce» in quei giorni. E proprio in piazza Colonna il senatore Luigi Albertini aveva il suo ufficio romano. Quell'ufficio che per tanti anni aveva condiviso con Giovanni Amendola, capo della redazione del «Corriere» nella capitale anche come parlamentare, anche come sottosegretario. Diciamo la verità: la storia d'Italia è più complessa di quella raccontata dal nostro amico Mack Smith. Giovanni Spadolini