Per favore, si scoraggi chi vuole scrivere libri

Per favore, si scoraggi chi vuole scrivere libri Per favore, si scoraggi chi vuole scrivere libri Nel bel paese dei congressi — e delle acque minerali che ne traggono (parlare asseta) buona parte della loro immeritata liscia o gassata fortuna — si svolse, poche settimane or sono, all'ombra del monastero palladiano nell'isola di San Giorgio Maggiore in Venezia (ospite le Fondazione Cini) una gran radunanza di intelligenze editoriali e giornalistiche per discutere sul tema dell'informazione al servizio del libro. Numerosi, applauditi ed ambigui, come d'uso, gli interventi. In verità rare parole approdarono con immaginazione al concreto, giacché il conclave desiderava solo convincersi che per i mali e i dolori del libro (l'homo sapiens italiano — dicono le statistiche — è librorepellente) altra panacea non esiste, se non la solita festa di calendimaggio, una bella «settimana del libro» da promulgarsi dalle Alpi al Lilibeo in ogni nobile, grande o piccola, città. Ovviamente, s'intende, col massiccio ed obbligatorio concorso del governo (significative cadenze oratorie scendevano sul capo degli «inviati» di Roma demagogicamente annuenti): infatti, è materia di fede che la lettura è unica madre della cultura e delle ideologie, e pertanto in tale sua materna fatica essa pretende una consapevole e lungimirante, democratica assistenza. Beato a godermi, sul muro frontale del bel refettorio, la gran tela di mano o di bottega forse del Tintoretto, ed ivi i cangianti broccati che vestivano le matrone veneziane san tifica te dal pi ttore, m i ricordai una lontana primavera sotto la loggia milanese dei Mercanti: mi rividi, timido scolaro in calzoni corti, accanto al celebrato Bontempelli che mi dedicava una copia, brossurata color albicocca, di «Vita e morte di Adria e dei suoi figli»; era anche quella, nihil novi, una settimana o festa del libro, edizione Anni 30. Per tre giorni, nel refettorio, sfilarono gli abbeverati discorsi: tutti preoccupati di suggerire formule terapeutiche atte a vincere la repellenza al libro, a favorire l'appetenza verso la carta inchiostrata, a guarire l'anoressia tipografica, a facilitare la produzione dei titoli, a sveltire gli scrivani e i torchi e, a catena, l'entusiasmo delle reti di distribuzione e la capienza delle pagine letterarie; convinti, gli oratori, che i sedicimila e più titoli all'anno (poco meno di quanto non si stampi in U.S.A.) scaraventati nelle librerie nazionali siano un meschino e disonorevole mitragliamento: onde il dovere di «incoraggiare» il grafomane, l'editore e il venditore, affinché la «lettura-cultura» diventi un ricostituente popolare, un olio di fegato di merluzzo alla portata d'ogni alfabetante. ! Fu Robert Escarpit, sociologo letterario e notissimo minielzevirista su «Le Monde», a notare che in sala, tra tanto accorrere di medici e diagnostici, si erano dimenticati di far venire il paziente: il lettore, il quale, forse, avrebbe avuto qualcosa da dire sulla propria inappetenza. Erano, sì, presenti alcuni lettori di professione (critici) che si erano pure bravamente ingegnati a dir la loro sui pesanti servizi che li affliggono; ma di essi non si fece gran conto perché la categoria è in sospetto di presunzione: pretende di considerarsi al di sopra del mercato; sono, in realtà (si mormora) occasionali mediatori, ai quali il libro giunge gratuitamente e con in più il privilegio di una gratificazione in danaro per la lettura dello stesso; lettori, inoltre, stimolati non già a far critica — esame a cui la ragione sottopone l'artefatto letterario per determinarne in modo rigoroso le eventuali caratteristiche — ma a produrre rapidi, simultanei.e «incoraggianti» messaggi per le vendite. Il sociologo francese, dopo essersi chiesto se l'ambiguo libro va visto come oggetto fabbricato, mera merce che si vende, si presta e si ruba, o come simbolo di una cultura espressa da un apparato politico e sociale, e dopo aver optato per la definizione sartriana: «Il libro non esiste se non quando viene letto», sottolineò che l'informazione deve stare al servizio della volontà e capacità di leggere dell'anonimo e non quantificabile grande assente: il lettore. Ma che fare quando costui non si lascia né convincere né condurre per mano e vuole, invece, scegliere di testa sua il libro che lo concerne e lo aggrada? Ebbene, accontentiamolo ed incoraggiamolo; mo edifichiamo e invertiamo la dire zione del messaggio informativo non l'informazione dall'editore e dal critico verso il lettore, ma da costui verso il "produttore; organizziamo una animazione socioculturale a livello del fruitore, dandogli la parola in seno al suo gruppo, consentendogli di sostituire una libera e motivata opinione capace di influenzare l'apparato di produzione; eviti, il critico, di occuparsi dell'attualità letteraria, ma inserisca il suo discorso nell'attualità generale, recensendo anche vecchi libri che un problema o un fatto di cronaca rendono attuali; ne guadagnerebbe, egli, anche in libertà di scelte. L'invito conclusivo di Escarpir era di desacralizzare la lettura dandole uno status simile a quello che hanno il calcio, il cinema, la radio, la televisione. Lui pure, dunque, si schierava, in modo surrettizio e brillante, tra gli incoraggiatori di una letteratura per altro testimoniale. Mi venne in mente una categorica e antitetica affermazione di Borges: «La letteratura testimoniale non deve assolutamente esistere»; il vecchio e grande scrittore argentino è purtroppo convinto che Omero, Virgilio, Shakespeare e l'Edda di Snorri siano tuttora testimoni di indiscussa attualità. Mi venne anche in mente una constatazione di Roger Caillois: «La nostra epoca è caratterizzata da due grandi inflazioni: quella monetaria e quella bibliografica». E, con essa, un memorabile lamento di Guido Ceronetti: «La carta è stanca, è desiderosa di rientrare nel legno e di dimenticare l'uomo in un lungo sonno di ghiaccio... Bisogna restringere tutto lo scrivere, l'usurpazione di carta, a pochi pensieri e a pochi versi estremamente difficili e oscuri... L'arte suprema della parola è di illuminare senza farsi capire...». Che senso ha, infatti, l'obbligare, come tutti pretendono, un ottimo idraulico a leggere il Diderot o il Landolfi coi quali non ha nulla da spartire? Perché l'editore deve accedere ai desiderata dei lettori? Perché incoraggiare a scrivere e a stampare libri sempre più destinati a vivere poche settimane? Perché svilire la cultura che è conquista faticosa, paziente e scarsamente remunerativa, riducendola ad una diffusa e mortificata sottocultura? Davvero diventerà migliore, socialmente più utile, più attivo, o più rispettabile, il salumaio che abbia letto «La cognizione del dolore» ? Per favore, non è tempo di scoraggiare la letteratura, l'editoria, la cultura quando hanno in animo di proporre tutto il facile, il volgarizzabile ed il posticcio in una valanga di ossessionante carta stampata? L'impresa di portare il popolo alla letteratura è solo ipocrisia demagogica; leggere per costrizione, nella falsa speranza che ciò offra l'acquisizione di uno status sociale diverso, una «distinzione» civile, è un errore. Scrivere per pubblicare, per conquistare un grado intellettuale, un premio letterario, come oggi largamente accade, è deplorevole e non ha nulla a che fare con la letteratura. Un libro è una scelta personale; a chi ne usa per semplice intratrenimento e divertimento, nulla va rinfacciato: è più utile, anche sul piano formativo, la gradita lettura di un modesto «giallo» che non quella di un classico che risulti annoiante e sgradevole. La forzatura non fa che rendere sempre più ipocrita il lettore il quale, ossequiato in pubblico l'importante Scrittore, leggerà poi solo quello che lo diverte; cosa già nota a Marziale: 'Laudani Ma sed ista legunl», verità sottolineata secoli dopo da Samuel Johnson: «Ciò che si legge per una specie dLsenso del dovere reca.ben poco vanraggio». Poi, nel refettorio veneziano, arrivò, inaspettato, il miele anglosassone del signor John Sturroch, redattore capo del «Times Literary Supplement». Il gentiluomo londinese, chiesta scusa ai relatori e al professore Escarpit, affermò di avere una sacrosanra e tutta elitaria idea sia della cultura sia dell'informazione letteraria: «Il nostro scopo, al T.L.S., non è assolutamente quello di essere letti da molti; e non è nostra intenzione, e certamente non lo sarà finché io resterò al T.L.S., modificare questa impostazione, cercando di rendere la pubblicazione più popolateli Raccontò che dopo la guerra jven ne fatto, purtroppo, un tentativo in tale direzione «da parte di una gestione che non nominerò: fu un vero disastro!». Ma per fortuna fu richiamato alla direzione Stanley Morrison «il quale rimediò la situazione riuscendo, cioè, a rendere il T.L.S. difficile da leggere, cosa che intende continuare ad essere». Noi — continuò — rifiutiamo il mito secondo cui la letteratura creativa si riduce solo alla narrativa e alla poesia: «Ogni forma di scrittura è creativa: ad esempio in questo momento in Inghilterra è eccezionalmente creativa la storiografia». Specificò che l'azione recensoria del T.L.S. è paragonabile a quella svolta da alcuni insetticidi «che mantengono il con' trullo degli insetti a un certo livello». Usano, al T.L.S., tener fermo il principio di evitare l'attualità; combattono là concezione filistea che giudica i libri come esseri generazionali che hanno .una nascita, una recensione e una morte, e perciò recensiscono un'opera, mediamente, soltanto sci mesi dopo che è stata pubblicata, evitando — la regola è ferrea — l'uso dei superlativi: «Io cancello sistematicamente la parola capolavoro perché penso che non spetti a noi, oggi, aggiudicare un libro o l'altro nel settore dei capolavori». Ai recensori chiedono, oltre ad una competenza specifica e al saper scrivere, anche un minimo di stile e di senso di humor. Giudicano utili («ne siamo contenti quando capitano») le stroncature, «perché la massa dei libri pubblicati è tale che riteniamo nostro dovere sia il diffondere il libro sia l'impedirne la diffusione». Quan to poi al compito di «animatori», sollecitato da Escarpit, i redattori del T.L.S. vogliono essere animatori «non del mondo dei libri», ma semmai, del più ristretto «mondo intellettuale». Qualcuno degli astanti, nel refettorio, applaudì amaro: ci rimase male. Non io, che ricordavo un dialogo di Borges raccolto per 'La Nacion» da Maria Esther Vasquez e dal quale qui riprendo qualche non disutile dichiarazione. Borges dice: «Schopenhauer affermava che nessun libro deve essere letto se non trascorsi cinquant'anni dalla sua pubblicazione: è assai probabile, infatti, che un libro sia volgare. In cambio, un libro che abbia superato il mezzo secolo può essere, probabilmente, un buon libro. Emerson, più ottimista, consigliava l'attesa di un anno». Borges dice: «La pubblicità (compresa quella editoriale} conferma le due principali caratteristiche del nostro secolo: la estupidezy la ìngenuidad: la gente compra il prodotto la cui eccellenza è dichiarata dagli stessi che lo producono e lo vendono». Dice Borges: «Meglio i tempi del Medio Evo che non i nostri: allora c'erano pochi libri, ma venivano continuamente riletti. Essi sfuggivano alla maledizione della stampa: se un libro durava, era perché meritava di essere ricopiato a mano». A chi, in quel dialogo, gli faceva notare che, oggi, nel giro di poche settimane la quantità dei volumi inviati sul tavolo di un recensore diviene del tutto inaccessibile alla lettura, rispose: «La qual cosa, per fortuna, in molti casi è il meglio che possa capitare». Scoraggiamo, allora. Non c'è, vacante di premi, una stazione climatica, o una marca di bevande, o una qualsiasi industria in cerca di una idea promozionale? Avanzo la modesta proposta di un premio letterario «Dell'Astinenza», da assegnarsi annualmente ad uno scrittore che, qualificato tale da almeno tre opere già pubblicate e recensite, sia rimasto cinque anni — per cause non dovute a malattia o senescenza — senza pubblicare nessun libro. E' doveroso un assegno di almeno dieci milioni: un così consapevole e meritorio silenzio vale almeno due milioni all'anno. Domenico Porzio

Luoghi citati: Adria, Edda Di Snorri, Inghilterra, La Loggia, Roma, U.s.a., Venezia