La notte di Augusto Manzo, ultimo re di Giovanni Arpino

La notte di Augusto Manzo, ultimo re A S. STEFANO BELBO, TRA I VECCHI LEONI DEL PALLONE ELASTICO La notte di Augusto Manzo, ultimo re S. STEFANO BELBO — Ormai si muove come un re, parla a bassa voce, dona un sorriso appena accennato. Sembra che il reale, il quotidiano, il momento stesso non possano intaccarlo più. Se cammina ha l'andatura sciolta dell'atleta antico, se siede lascia che l'azzurro dello sguardo abbracci un mondo che non potrà mai dimenticare il suo.campione, il suo re. Augusto Marno compie gli anni domani, domenica. Non fuma più le sue quaranta sigarette francesi al giorno. E sema soffrire. Semplicemente ha smesso, dopo un'operasione dovuta ad un incidente d'auto. A tavola assaggia i cibi ma non prova gli stimoli pantagruelici di una volta, quando doveva alternare partite e • tajarin», battute violente allo sferisterio e pinte di Dolcetto. E'unre che sa e non sa di esserlo, è un mito vivente a cui tutti danno del tu, nei nostri dialetti. Adesso è buio a Santo Stefano, i suoni del ballo e della giostra sembrano remoti, eppure la piazza è a pochi passi. I fanali dello sferisterio raccolgono i guizzi e i brividi di migliaia di falene, la gente si è seduta sulle panche, aspetta i vecchi leoni del pallone a pugno: si chiamano Gioetti, Sardi, Morino, gente che ha superato i quarant'anni o addirittura i sessanta, tronchi d'uomo che smuovono l'aria anche se stanno fermi. E' una partita vista come un «memoriaU, in ricordo di Giuseppe Manzo, il fratello del re, un campione anche lui, morto quarant'anni or sono in guerra. Una dozzina di sobrie coppe premieranno i vecchi leoni. E Augusto, il cavaliere, il Manzo che è tutto ciò che il pallone elastico piemontese fu, ora si annoda il polso destro, immenso, con la benda. Lentamente. La gente lo guarda ancora come se avesse venti o quaranta primavere di meno, quando i contadini assistevano al rito, prima e dopo la partita, e Manzo colava sudori in una pozza attorno al corpo, quale un Ercole delle colline. Stringe la benda con un ulteriore nastrino verde. E noi, a bassa voce, gli diciamo: non giocare, lascia perdere. Lui annuisce, per via del cuore ingrossato e anche della figlia, che si arrabbierà moltissimo, domani, leggendo del padre ancora sollecitato da quella sfera di gomma. Poi va sul battuto di cemento, gli altri intorno a lui hanno capelli bianchi bicipiti enormi stomaci tesi. Si affronteranno in una gara di due ore, finiranno stremati e contenti a mezzanotte, senza risparmiare momenti di ironie, vampate di orgoglio agonistico, pezzi di bravura mischiati ad ansiti. Manzo ha dovuto farsi prestare i tradizionali pantaloni bianchi Sardi inizia con scarpe normali a costo di rischiare le caviglie, ma la classe si fa vedere. Fin quando il re srotola la benda, è chiaro che «non si è piaciuto; si porta ai bordi del campo e afferra il bastone dell'arbitro. Dirigerà nuove fasi avanti e indietro con quel suo passo felino, rispondendo alle battute del pubblico, che rincuora, rimpiange, osserva nella cappa afosa ed umida della notte. Non c'è mai tempo, non c'è mai spazio giornalistico sufficiente per parlare, in termini dotti o storici o sportivi o sociologici del pallone elastico, una disciplina che sta anch'essa pericolando, che non offre più i grandi talenti, i fenomeni forzuti degli anni d'aro. I ragazzi vogliono soldi subito, le ^speranze», come Rosso di Garessio e il sedicenne Pavese di Santo Stefano avrebbero bisogno di scuola, di applicazione, di cure, e non di officina o di improvvisazione. Manzo sogguarda il declino di questo sport centenario, ma nutre ancora tutti i suoi ideali. Gli escono di bocca commenti brevi mai amari, mai rassegnati. Se si sente una bandiera non fa certo pesare questo ruolo fatidico, capitatogli in sorte attraverso migliaia di partite, trasferte in ogni dove, sfide infernali a sessanta gradi di sole e nelle rugiade delle notti. Ci siamo portati a Santo Stefano durante il pomeriggio, prima del ^memoriali, facendo sosta al laboratorio di Pino Scaglione, il 'Nuto* pavesiano. Il laboratorio è tale e quale, con gli strumenti di musica che il fratello di «iVuto» intagliava, chitarre e violini e violoncelli un tavolo che porta istoriate le note dell'iAve Maria» di Gounod. Scaglione ha compiuto i settantotto — «vado col secolo» — ci vediamo dopo ventisei anni esatti, ricorda tutto, sa tutto, la sua umanità ha il tintinnio del cristallo e giusti modi severi nei confronti di un mondo dove la gente non sa neanche più ballare, si agita, questo si ma ha perso lo scopo del ballo, che era poi atto d'amore e ricerca di una •femminella», in accordo con lei in gioco con lei Con *Nuto» e Manzo si può star zitti per ore, oppure parlare a monosillabi, oppure lasciarsi andare a lunghe esplorazioni sulla vita, sul Pianeta, lontani da quel •langarolismo» che deve sottostare ormai alle mode, ai libracci incongrui e parassitari e va invece conservato come un aroma segreto, da spartire con nessuno. Facciamo il conto, ridendo, delle bastardaggini che sono state dette sulle spalle di questo mondo langhetto: è stato più fedele un francese, Dominique Fernandez, di tanti nostrani velleitari. Beviamo vino bianco e Dolcetto di 'Nuto» davanti al laboratorio dove la strisciata d'un camion ubriaco, nottetempo, ha sbriciolato un tino. A tavola, prima della partita, Augusto Manzo se ne sta poi silenzioso, beve persino un dito d'acqua. Ma dentro di lui governa i ricordi come un pastore che spinge avanti mandrie infinite e pacifiche nel silenzio di spazi che gli altri non possono penetrare. Parliamo di Paolo Rossi, campione anche lui morto in primavera. Fu astuto col pallone, con le donne, non disse mai no a un cibo, a una bottiglia, ad un invito a biliardo: vinceva sul tavolo di panno verde manovrando anche un ombrello al posto della stecca. E' morto dolorosamente, lui che diceva: «Vorrei crepare dando una battuta al volo nello sferisterio». Quelli che passano attorno al tavolo dove siamo seduti salutano, il re Augusto ha una mezza parola per tutti, e sempre con quel sorriso tagliato nelle nobili rughe del volto, sempre con quegli occhi che hanno un cilestrino invidiabile da parte dei gatti siamesi Di pallone si dice quel poco che serve. Perché è un oggetto, una cosa, uno strumento, intorno al quale va misurata l'umanità di chi lo sospinge, di chi sbaglia o indovina il passo. E' come una lancetta che misura il tempo di certi individui particolari disposti alla lotta leale, alla sfida perpetua, o alla scommessa ingarbugliata. Lo giocavano i forti ma questi stesti forti diventavano teneri, impalpabili e quasi sbeffeggiati nei nomignoli, grazie ai quali Filippa era «Ghindu», Ferrari «'1 Previot», Conterno «'1 Basilici!», Allocco «Madama» e Ferro «Bialera». La lunga carta d'identità del pallone non ha mai fornito un soprannome al suo re, ad Augusto, l'intoccabile e l'invincibile. «Ma no», sorride sottovoce Manzo: «Ho fatto vincere tanta gente». £ lo dice con modestia, non sapendo quasi il valore di gueH'«ho fatto». Del resto lui poteva schierarsi con tre compagni scalcagnati un sagrestano trovato all'ultimo momento, un farmacista smanioso di misurarsi e vinceva ugualmente, sopperendo allo sbracare dei soci e ai loro inevitabili errori. E cosi mentre mezza Italia parla di un ragazzo Paolo Rossi vicentino, noi in questa briciola di mondo dove ballano le falene notturne, parliamo del vecchio Paolo Rossi di Monesiglio, giocatore di pallone che non poteva lasciare eredità, come non può lasciarla lo stesso Manzo: non esiste chi è in grado di raccogliere il trono e l'impero. Esistono dei bravi ragazzi, anche forti anche giustamente «costrutti», ma senza la dismisura umana che sapeva accomunare giorni spropositati e partite micidiali tavoli dove Gargantua sarebbe apparso un povero dietologo e sfide notturne che macinavano polsi polmoni portafogli cascine intere gettate II per scommessa. E' quel pallone così fenomenico che Manzo porta nello sguardo, nel gesto che accenna appena, nell'eloquio quasi avaro. E' un pallone come cadenza d'anima, oltreché di mercati e osterie e cortili e sferisteri e muri di chiesa dove si batteva al rimbalzo. E' un pallone visto come destino muscolare, certo, ma soprattutto come idea e scienza di balistica paesana. Lo si legge ancora nel volto di Manzo, che avrebbe potuto diventar dieci volte protagonista, o centromediano juventino o cursore di mezzofondo o lanciatore del disco e invece scelse quella sfera di centottanta grammi per obbligo naturale e fedeltà alla sorte. Le falene diradano intorno ai coni luminosi dello sferisterio di Santo Stefano. Intorno a Manzo, per le fotografie rituali, si raccolgono gli omoni dell'antica tribù: magri e svelti e furbi come Sardi che è un incrocio di fili di ferro, immensi come Gioetti e Morino, che dondolano sulle scarpe da ginnastica quali nostromi in plancia. Ruscelli di sudore colano dalle basette grigie, lungo guance lavorate dagli anni Hanno giocato due ore per un gran bel niente, per vedersi e farsi vedere, magari dovendo litigare (o prima o dopo) con le mogli timorose che il cuore non regga, che un ennesimo strappo costringa a zoppicare proprio mentre incombe la stagione contadina. Due parole per tutti: le dice l'avvocato Gonella, e ciascuno le riceve con le palpebre chiuse, quasi vergognandosi d'essere nominato. Le mani che stringono la tua, prima di accogliere la coppa del 'memorial», sono enormi tenaglie miti che ti toccano con cautela per timore di farti male. La notte finisce, c'è tempo per un bicchiere, per un saluto, per gli ultimi due passi nel paese dove le automobiline della giostra giacciono immobili nei loro colori Poi'. Augusto Manzo ci guarda andar via: fermo come un castagno, i pantaloni bianchi che fanno macchia nel buio, le rughe scolpite che si consegnano all'occhiata degli amici in partenza. Non ci diciamo più niente: del resto non esistono parole per salutare un re, la cui corona è una traiettoria, una stella cometa di palloni che grandinano in ogni spazio di cielo langarolo. Giovanni Arpino

Luoghi citati: Garessio, Italia, Monesiglio, S. Stefano Belbo