Diario del romanziere che ha rinunciato di Giovanni Arpino

Diario del romanziere che ha rinunciato i libri Diario del romanziere che ha rinunciato Elias Canetti: «La provincia dell'uomo», Adelphi, pagine 372, lire 7500. Ha scritto: m'ero posto un divieto verso ogni lavoro puramente letterario. E questo dopo avere scritto un romanzo, Auto da fé, nel 1935, che oggi ci appare una «storia» quasi inimitabile, un «risultato» poetico che nel suo atroce struggimento spazza via decine di libri in decine di lingue. Bulgaro, di famiglia ebraica d'origine spagnola, costretto a farsi viennese, svizzero, inglese, Elias Canetti vive a Londra, settantatreenne, e ha dedicato la maggior parte della sua esistenza e del suo studio a un'opera saggistica, Massa e potere (uscì nel '72 in edizione italiana) dove l'analisi contro la Potenza e contro la Morte ha ringhi biblici pur obbedendo allo sforzo scientifico: è disperata lotta che afferra la caducità dei princìpi e dei destini, il mirabile nulla dell'uomo, la ferocia della sua storia sempre diversa e sempre ripetitiva. Per non cedere all'oppressione e all'ossessione di questo lavoro, in trent'anni Elias Canetti, il «romanziere che ha rinunciato», tenne un diario, questa Provincia dell'uomo, dove non soltanto l'assillo quotidiano ma spunti, pensieri, idee, abbozzi, considerazioni, confessioni venivano allineandosi. Uno sterminato quaderno, persino troppo impeccabile nella «scelta» dallo stesso Canetti operata. Un quaderno di concetti fulminei, di «personaggi» che non avrebbero mai goduto d'un racconto completo, una cornucopia di appunti, minime e grandi rivelazioni, un cespuglio intricato che riguarda la morale, la storia, l'ebraismo, i tedeschi, i linguaggi, la guerra, le bombe, gli studi, le filosofìe, visti tutti con uno sguardo che diventa vitreo per fronteggiare il dolore, il disastro, la dannazione umana. Bisogna stralciarne alcuni passi. Eccoli: «Non posso più leggere niente sui popoli primitivi, lo stesso sono un intero popolo primitivo»; «Tutto è meglio dell'io. Ma dove metterlo?»; «Egli bruciò tutti i suoi libri e si ritirò come un eremita in una biblioteca pubblica.»; «Il progresso ha i suoi svantaggi: di tanto in tanto esplode.»; «La morte la voglio seria, la morte la voglio terribile, e che il punto più terribile sia quando non c'è più da temere se non il nulla.»; «Oggi "tedesco" è divenuto una parola dolorosa, come "ebreo"». Elias Canetti ha un volto mite, lontano, professorale. Ha dovuto errare portandosi dietro quel nobilissimo marchio letterario del mitteleuropeo che lega Musil a Roth, Svevo a Kraus. Appartiene ad una civiltà defunta che noi visitiamo nei suoi straordinari cimiteri letterari, dove cripte di cappuccini, fantasmi imperiali, decenza borghese, corruzione come malattia, ingenuità e perbenismo come mito diventano romanzi, commedie, valzer, piume, sogni, lacerazioni sentimentali, nostalgie che velano gli occhi e nascondono la caduta, la «modificano» au ralenti. In questa Provincia dell'uomo, così freddamente tesa a pensare anziché a narrare, dove certe figure di romanzo vengono congelate dallo «studio» dell'autore (c'è un «sazio», c'è un «impotente», c'è un «geloso» che potrebbero da soli sfamare le voglie di tre romanzieri) chi ha amato i libri di Roth troverà il contraltare saggistico, la valvola di sfogo e il supporto d'una fantasia europea altrimenti quasi indecifrabile, nella sua purezza. Il puro cristallo di Joseph Roth si riflette negli specchi poderosi di Canetti, che forse ha studiato e ha costruito un suo «sistema» per non morire di alcool e disperazione come il grande Joseph. Lo sforzo sul quaderno del quotidiano consente così a Canetti di pagare il pedaggio irrazionale, la bestialità insita in un homme des letlres, e codificarla in brevi o meno brevi messaggi, apologhi, sentenze, che lanciano urla malgrado la forma tesa sempre a signoreggiare dolori e sforzi («tutto quello che si è dimenticato grida aiuto nel sogno», ammette Canetti). Un libro da aprire e riaprire ogni momento, trepidando alla ricerca delle grazie e del mirabile che vi sono nascosti. Un libro che giustifica una sentenza inserita a pagina 254, proprio qui vera: «Senza libri le gioie marciscono». Giovanni Arpino

Luoghi citati: Londra, Massa