NOSTALGIA DI GITE NON FATTE

NOSTALGIA DI GITE NON FATTE NOSTALGIA DI GITE NON FATTE La bella Grivola dei miei ricordi PARIGI — Sono venuto a Parigi in macchina, quindici giorni fa. Sulla strada che da Aosta conduce a Courmayeur e al Traforo del Monte Bianco, mi voltavo di continuo, faticosamente storcendomi indietro e guardando di sotto in su, a sinistra, nella speranza di riuscire a vedere, sia pure per pochi istanti, la vetta della Grivola. «Inutile, papà» borbotta mio figlio che guida, «ho proprio paura che in tutta la strada non c'è neanche un punto da dove la Grivola si può vedere». E già stavo per rassegnarmi quando, di colpo, appena passato Villeneuve, il grande costone interamente boscoso che nasconde la vai di Cogne sembrò, per effetto della nostra velocità, aprirsi, fendersi fino al cielo: lassù, nello stretto incavo verdecupo di un ultimo avvallamento, ecco, altissima, affilata, lucida al sole, la lama di ghiaccio con la sua punta aguzza e lievemente ricurva! Che cosa c'era, nella bellezza suprema di una vetta come la Grivola, apparsami così nella gloria d'un mattino d'estate, che cosa c'era che, per qualche attimo, tra una felicità e un'angoscia inesplicabili, mi aveva tolto il fiato? Certo, se fossi stato pittore, avrei detto a . • figlio di fermare. Avrei ca\ .al portabagagli cavalletto, pennelli, tutto il necessario, là, dal bordo della strada, avrei cercato di fissare su una piccola tavola ciò che vedevo o, piuttosto, ciò che avevo provato in quei primi istanti. E forse, dipingendo, avrei cominciato a capire qualcosa. Ma sono scrittore, e andavo a Parigi per mantenere una promessa che mi ero fatto da mesi: vedere la mostra di Cézanne al Gtand Palais! Facevo appena in tempo, ormai: erano gli ultimi giorni prima della chiusura. Ma l'involontario ritardo che tanto avevo deprecato mi portava fortuna: così avrei anche visto, al Centro Georges Pompidou, la straordinaria mostra Berlin-Paris che si era aperta appena adesso: i pittori tedeschi dal 1900 al 1933: Espressionismo, Dada, Nuova Oggettività, Costruttivismo... E chissà, mi dicevo intanto, chissà che questo improvviso rimpianto di non essere pittore non entri per qualche cosa nello scopo del viaggio? Da ragazzo, vivendo a Torino, non di rado andavo in montagna. Ho anche compiuto qualche facile ascensione, so che cos'è un ghiacciaio. Ore, giorni di gioia immen sa, più completa e più vitale di qualunque altra, allora e dopo: soprattutto, una gioia che ero sicuro non mi sarebbe mai mancata. L'alpinismo, in misura ridotta, possono praticarlo anche i vecchi. Poi, invece, il destino... A ventitré anni sono partito per l'America. Da quando sono tornato ho vissuto fino oltre i cinquanta a Roma. Ed è vero che per tutto quel tempo — il tempo dell'intera vita di Giorgione — ho sempre conservato una fermissima volontà di andare in montagna. Ma «la volontà ha bisogno di ostacoli per esercitare il suo potere; quando non è mai contrastata, quando non ci è necessario nessuno sforzo per ioddisfare i nostri desideri perché li abbiamo riposti soltanto in piaceri che possiamo ottenere allungando una mano, la volontà diviene impotente. Se tu cammini sempre in pianura, i muscoli necessari a salire una montagna si atrofizzano». Ebbene, questa verità, del resto così ovvia, che trovo oggi in un racconto di Maugham, l'ho constatata con profonda amarezza, con acute sofferenze fisiche, e con ridicolo stupore! Non c'è dubbio: pittore, avrei dipinto la Grivola mettendo, o almeno credendo di mettere, involontariamente e inconsapevolmente, nell'impasto dei colori e nella carezza dei pennelli, la disperazione di non potere più affrontare un ghiacciaio, il ricordo paradisiaco di quelle altezze ormai lontanissime, e il rimorso di averle perdute. ★ * Di un lungo viaggio in macchina, rapido e continuo, la memoria abitualmente trattiene solo alcune istantanee. Ecco le mie dopo la Grivola: il Monte Bianco da Courmayeur, l'Aiguille du Midi da Chamonix; poi, attraversando il Jura, la dolcezza di Nantua col suo lago deliziosamente familiare; poi le colline scenografiche della Borgogna; infine, poco prima di Parigi, la Foresta di Fontainebleau o, più precisamente, quel breve tratto della foresta che un sobrio cartello indicava come «Les rochers de Fontainebleau». Fu infatti il cartello ad attrarre la mia meravigliata attenzione su quei massi grigi o bruni, allungati, gibbosi, difformi, bizzarri roccioni di granito non dissimile dal taf otte della Gallura, e cioè stranamente politi, levigati come dalla mano e dalla fantasia di ciclopi scultori, e tuttavia sparsi verso ogni possibile direzione, in un caotico disordine continuamente interrotto dalla verticalità della foresta coi suoi fitti tionchi. Di nuovo dovevo trasalire, non appena mettevo piede al Grand Palais: ecco, dalla mano del vero gigante di tutta la pittura moderna, una tela intitolata Rocbers à Fontainebleau. In una nota del ca- ' talogo vedo che il mio vecchio i amico e maestro Meycr Schapiro avverte, in qut ;to olio di Cézanne, come «un senso di catastrirr» c cita un brano dell''Edicati: n sentimentale. Provo a tradurre: «il sentiero procede a zig-zag tra i pini tozzi, sotto rocce dal profilo spigoloso. Tutto quell'angolo della foresta ha qualcosa di soffocante, di selvatico, e di raccolto. La luce, attenuata in primo piano da una sorta di crepuscolo, spargeva in lontananza dei vapori violacei, una chiarità bianca. Le rocce finivano col riempire tutto il paesaggio, cubiche come case, piatte come lastre, puntellandosi, strapiombando l'una sull'altra; confondendosi, simili alle rovine irriconoscibili e mostruose di qualche città scomparsa. Ma la furia stessa del loro caos fa pensare piuttosto a vulcani, a diluvi, ai grandi cataclismi ignorati». Così Flaubert ha descritto le rocce di Fontainebleau una trentina d'anni prima che Cézanne, le dipingesse. Assurdo pensare che Cézanne si ispirasse a Flaubert, anziché al motivo (««« moti/», come diceva lui) che aveva davanti agli occhi. Perciò si tratta, molto semplicemente e profondamente, di una concordanza. Sì, Flaubert e Cézanne: quale meravigliosa concordanza! Quanta fede ebbero, e l'uno e l'altro, nella divinità del Vero! Ma non vorrei, fino da adesso e prima di ritornare su questo inesauribile argomento, che dal Vero si escludesse la verità della particolare commozione con cui l'artista lo guarda; e non vorrei che per Fede si intendesse una determinazione pregiudiziale, dogmatica, astratta. Al contrario. La fede dei santi e degli artisti è scrupolosa come la memoria di ogni uomo onesto: ogni volta che si sente sfidata, dubita di se stessa, esita a pronunciarsi, trepida si affretta a controllare. Nata da questo affanno, vittoriosa di questi dubbi, vedremo come nasca la grande rivoluzione pittorica di Paul Cézanne. Mario Soldati