Manfredi, il cantante che contesta su musica di tangacci e quadriglie

Manfredi, il cantante che contesta su musica di tangacci e quadriglie Ritratto d'uno dei «divi» più trasmessi dalle radiolibere Manfredi, il cantante che contesta su musica di tangacci e quadriglie MILANO — .Se si facesse un'indagine per scoprire qual è il cantante più trasmesso dalle «radiolibere-, vincerebbe tranquillo Gianfranco Manfredi. Anconetano trasferito a Milano, baffi e occhiali da sinistrese, un po' offside, Manfredi non è entrato nel grande giro dello showbusiness. e non ha dunque la pubblicità facile d'un Finardi. per esempio, o le antenne giuste dei cantautori mandati in onda dalla Rai; tuttavia, pochi hannolasua notorietà nel giro di ventenni che s'usa definire «movimento giovanile», e tra Sessantotto e Settantotto lui consuma con voce tagliente i miti vecchi o rinfrescati della militanza, del ribellismo, del rifiuto della politica, dell'emarginazione, della sessualità «naturalmente nuova», e di tutto il lungo eccetera che continua a mettere assieme la Pitrentotto con Guido Carli. Paolino Rossi e Ogino-Knaus. A suo modo, anche Manfredi è un «reduce» del Sessantotto. Allora aveva vent'anni, veniva dal Berchet e aveva fondato con alcuni compagni il complesso dei «Balabiot baiiscia». che per i forestieri significa qualcosa come «Quelli che | ballano nudi sputazzando». Facevano allegramente musicaccia popolare, tipo quella dei cantastorie: «l nostri modelli erano un po' i Gufi, che per me sono i piccoli Beatles italiani, perché furono i primi a servirsi della tradizione musicale per attaccarvi su, però, testi satirici con un riferimento immediato alla vita di tutti i giorni». L'impostazione cabaretUstica gli resta in qualche modo addosso, e quando la Stufale e l'emmelle lo coinvolgono nelle battaglie politiche dell'università, le camoni «di movimento» che si mette a scrivere si distinguono subito per il taglio grottesco, per il gusto dello sìnontaggio delle parole d'ordine: «Erano la verifica in chiave ironica della nostra militanza quotidiana: tra Marx, Lenin e Marcuse, quelli che s'aggiravano per la Statale vestiti alla "Che" Guevara non avevano proprio il senso dell'autoironia». Poi arrivano le scissioni i frazionamenti, il lungo rincorrersi delle teorizzazioni e del dogmatismo. «Per anni, molti di noi avevano creduto che la rottura con la merce avvenisse nella rivendicazione radicale dell'autonomia del politico. Contro i modelli della canzonetta di consumo, i modelli della canzone di lotta; contro gli amorucci della can- zonetta, l'amore per il comunismo». Mentre anche Celentano cantava, e con maggior successo, «Sono ribelle nel vestire nel dormire nell'amare la bimba mia». Manfredi percorre cosi un itinerario che passa trasversalmente nell'esperiema politica del «movimento», e da militante si ritrova disgregato, cane sciolto, prima con l'etichetta approssimativa di «cantautore dell'Autonomia», e poi soltanto come interprete sfottente e sarcastico di quella vasta area di non-militanti che si rifugiano nei circoli giovanili e nel personale-poli tico. Le ultime sue canzoni sono state raccolte in un Lp dal titolo emblematico, subito diventato di moda tra i ragazzoni: Zombie di tutto il mondo unitevi. Non c'è solo il gusto blasfemo della citazione che non perdona la grinta militante, «c'è anche il senso di questo nostro viver tutto come passato; gli zombie — i morti viventi — non sono soltanto i borghesi e gl'integrati, siamo tutti noi che viviamo di revival permanenti, di frammenti, di gesti». In un pastiche cementato con alcune canzoni del «nuovo» Ricky Gianco. lo «Zombie» è diventato anche un testo teatral-musicale che, nella scorsa stagione, ha fatto una serie incredibile di «esaurito» (ed ora è anche pubblicato in un librino della Mazzotta). Il filo della storia è l'incontro tra due strani reduci, uno del '68 e l'altro del rock: tra battute, sberleffi e canzonette irridenti, tutta l'illusione dei miti giovanilistici è ripassata con un'ironia brillante e spietata, che mette in mezzo Berlinguer e Craxi, i festival politici e la repressione, l'autoriduzione e i digiunatoli radicali. Più i mass media, Elvis Presletj. i fricchettoni, e Bettega («che più che un'ala è un arco costituzionale»/ Dice Manfredi: «La vera eredità di questo spettacolo è un rifiuto dei vecchi modi di far politica — Stalin, le spranghe, la clandestinità ecc. — e il tentativo di recupero del vitalismo giovanile. Che non è il vecchio discorso sul corpo, ma un modo di riprendersi la vita con calma». Ciò che colpisce soprattutto, della musica di Manfredi, e ne fa il suo stile inconfondibile, è la contaminazione irriverente — e corrosiva e grottesca nei risultati — che lui fa appiccicando ai testi, da contestazione, la paccottiglia stupida e datata dei ritmi più commerciali, tangacci, spagnolismi, quadriglie, melodie sanremesi. Ne vien fuori un incontro dissennato, spassosissimo, dove ne succedono davvero di tutta colori: e il piccolo scrivano fiorentino di De Amicis si scopre parente dell'indiano metropolitano. m. c. (ìianfranco Manfredi

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