I popoli ricordano il grido: "Mai più guerra" lanciato all'assemblea delle Nazioni Unite

I popoli ricordano il grido: "Mai più guerra" lanciato all'assemblea delle Nazioni Unite I popoli ricordano il grido: "Mai più guerra" lanciato all'assemblea delle Nazioni Unite Messaggero indifeso in un mondo diviso tra le ingiustizie, Paolo VI, in nove viaggi, precisò il suo disegno: indurre gli uomini a costruire la pace - Viaggiatore pensoso, ma sicuro delle ragioni profonde del suo credo, invocò mediazioni in tutti i continenti ROMA — «Jamais, jamais», mai più, mai più. Ci viene in mente il francese semplice, scolastico, che Paolo VI usò all'assemblea delle Nazioni Unite del 1965. Mai più gli imi contro gli altri, mai più la guerra. In piedi sul podio, davanti al tavolo della presidenza, teneva le mani in quel suo modo stupefatto e rigido: quasi protese nell'esortazione, raggelate nell'offerta. Aveva l'abito bianco del Pellegrino pacifico e dietro campeggiava, in alto, il segno dell'Onu, quel globo iscritto in tanti cerchi, come fissato nel mirino dei tempi violenti, ostia sconsacrata di un mondo mai unito. Il Papa era una macchia bianca incredibile nella chiesa laica di New York, e per coerenza sembravano colpevoli e precari finalmente anche i testimoni. Nei filmati di repertorio si vedono gli ambasciatori delle grandi potenze, col loro cartellino e la cuffia, mentre ascoltano il visitatore impolitico. Mai più la guerra, mai più l'uso delle armi. L'America stava intensificando i bombardamenti in Vietnam, sul mirino simbolico dell'Orni stavano per scoppiare altri bubboni, dal Medio Oriente all'Africa, all'Europa dell'Est, all'Irlanda. Il Papa era stato invitato dal segretario dell'Orni come un alleato, un intermediario senza armi; nel mondo non ce n'è mica tanti. Pensiamo a quel francese pressante, a quell'appello alla pace, inevitabilmente chiuso nella retorica delle cerimonie, come al segno più visibile dell'internazionalismo di Paolo VI, della sua fame di viaggi e di incontri, della sua ansia di appelli e di invocazioni. E' stato un internazionalismo che ha avuto un aspetto esteriore clamoroso e una linea interna non solo pastorale, ma politica, travagliata nella continua ricerca. Non c'è mai stato un Papa tanto viaggiatore, non c'è mai stato viaggiatore tanto tormentato. Ma non c'è mai stato un dubbioso tanto sicuro dei suoi desideri quando andava all'estero. Si capisce, il mondo moderno gli mise a disposizione i mezzi che i suoi predecessori non avevano. Si capisce, il colore e l'avventurosità dei suoi viaggi (compreso un attentato) spesso hanno avuto il sopravvento, nei resoconti, sulle ragioni più profonde. C'era quell'aereo bianco con cui andò in Palestina. Ebbene, chi resistette alla tentazione di trasformare l'aviogetto in colomba? C'era quel suo volare in parti opposte del mondo, dalle Filippine alla Colombia, scendendo fragile e benedicente. Ebbene, tutti i cronisti si trasformavano in buoni selvaggi che vedevano scendere il Padre Bianco, liberando finalmente l'angoscia degli atei industrializzati, ritrovando il rimorso della fede, la possibilità di essere consolati, se non quella di essere salvati. Nella ferocia abitudinaria del mondo, i viaggi del Papa, furono anche sopraffatti dalla curiosità e dallo spettacolo sul campo. Il cosiddetto pellegrinaggio in Terra Santa del 1964 si vide in televisione come un tumulto impraticabile, un affollarsi e urtarsi di migliaia di curiosi astratti, di festanti increduli, di confusio nari per una volta protagonisti, di plebe per una volta riscattata. Nel 1970 all'aeroporto di Manila non stupì nessuno che nella calca furibonda si levasse la mano armata di pugnale del pittore Mendoza; anche lui voleva partecipare alla rottura delle abitudini, alla popolarità con un assassinio. Così le immagini violente si mescolavano con naturalezza alle edificanti: il Papa che porge la mano da baciare a un indio con la berretta ricamata (Bogotà, 1968); suor Lucia di Fatima che si inginocchia a baciare l'anello papale (Fatima, 1967); Paolo in preghiera tra i baraccati di Manila, il Papa col mantello gonfio di vento mentre parla al sindaco di Sydney (1970), e perfino l'incontro a Fatima con Umberto di Savoia, discendente della Casa che ruppe il Potere temporale. Dietro questo tumulto, questi pericoli, questi fragili sim- boli c'era l'internazionalismo del Papa, inteso come politica e come azione pastorale (laicamente diremmo: culturale). Le nove uscite verso il mondo (1964 in Terra Santa, e in India; 1965 a New York; 1967 in Portogallo e in Turchia; 1968 in America Latina; 1969 a Ginevra, con discorso all'Organizzazione del Lavoro e in Africa, a Kampala; 1970 a Manila, Sydney, Giacarta, Hong Kong) rappresentano altrettante tappe, altrettanti tentativi di precisare il proprio disegno. Nei viaggi appare soprattutto l'intenzione terzomondista, l'attenzione ai Paesi poveri, indicati ai Paesi ricchi come luoghi di ingiustizia, da sanare per scongurare la violenza. Qualcuno avrebbe voluto un Papa impegnato direttamente nella scelta, nella rivendicazione dei diritti piuttosto che nell'appello alla buona volontà. Negli altri viaggi, a tavolino, che il Papa fece verso l'Est Europa c'è la seconda componente del suo internazionalismo, la cauta apertura verso i Paesi socialisti, la ricerca di accordi diplomatici. L'uno e l'altro aspetto politico cementati dalle continue invocazioni alla pace. Non si capirebbe il Papa viaggiatore, diplomatico e pacificatore se non si ponesse mente alla radice intima, culturale, del suo viaggiare. Dalle prediche di Padre Bevilacqua, ascoltate da ragazzo, alla lettura di Maritain, al lavoro tra gli universitari cattolici, all'apprendistato diplomatico si costruì in Giovanni Battista Montini un'idea effusiva e tradizionale del Papa, uno slancio temperato, ma inarrestabile. Il dovere religioso della paternità impone al Papa di amare insieme ai poveri e gli ingiusti; il ruolo di Capo della Chiesa gli chiede di tener stretto il suo popolo. Questa convinzione, ferma sotto le incertezze, si traduce in politica con l'invito alla mediazione, alla pace senza rivolta, alla giustizia come condizione della pace; e insieme vuole un certo irrigidimento del magistero, perché solo una Chiesa unita e salda può lanciare messaggi al mondo, può dare esempi ed essere creduta. E' vero, giudicherà la storia il rapporto tra intenzioni e azione. Di tanti viaggi, ci sembra che resti quel discorso all'Orni («mai più guerra»), sconfitto dagli eventi, piegato dalla retorica, ma appello inevitabile e fondamentale: il punto sofferente di congiunzione tra le speranze dei religiosi e degli atei. Stefano Reggiani New York 4 ottobre 1965: il discorso di Paolo VI all'assemblea delle Nazioni Unite Gerusalemme 4 gennaio '64: l'abbraccio tra il Papa e il Patriarca ortodosso Atenagora Gerusalemme 4 gennaio '64: il Pontefice prostrato a terra davanti al Santo Sepolcro Manila novembre '70: la drammatica immagine del fallito attentato al Pontefice (Upi) Venezia settembre '72: Paolo VI mentre arriva in gondola alla Basilica di San Marco