Kafka, Rilke e altri mostri di Giorgio Manacorda
Kafka, Rilke e altri mostri L'epoca d'oro della poesia nel cuore della vecchia Europa Kafka, Rilke e altri mostri « L'epoca d'oro della poesia austriaca » a cura di Ervino Pocar, introduzione di Claudio Magris, Guanda 1978, pp. 367, lire 10.000. Una galleria di «mostri sacri» della poesia di lingua tedesca tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento raccolti nell'Austria felice e fatiscente dell'Impero asburgico: Hofmannsthal, Kafka, Rilke, Trakl, Kraus, Werfel, Zweig, Broch e, meno noti al lettore italiano, Csokor, Braun Daubler EhrenStein, Viertel e altri ancora. Ervino Pocar ricorda come «nessun altro ottantennio della storia letteraria austriaca può vantare un uguale numero di grandi poeti». Di qui il titolo dell'antologia, che ci convince purché quell'«epoca d'oro» non faccia pensare ad un clima di radiose certezze, ad una piena vitalità, ad un aurorale rigoglio di energie. La doratura dei frutti poetici è infatti sottile e istoriata, non corposa e piena: è la conseguenza di lunghi elaborati tramonti. E' la grande decadenza che non si spegne e segna il nostro secolo che sorge nel crepuscolo delle certezze. E' lì, a Vienna, che comincia tutto: la condizione schizoide, la distanza dalla realtà, l'impossibilità di nominare gli oggetti, l'ossessione del doppio, il franare dei codici, il fatale diluirsi di ogni ordine, di ogni unità. Le visioni totalizzanti del mondo, le sistemazioni, le complesse cattedrali filosofiche e letterarie si disfano come castelli di sabbia che il vento del nuovo secolo logora e disperde. Nel cuore della vecchia Eu- ropa inizia quella deriva dei valori che acquisterà gli insospettabili, e così poco drammatici, connotati della frivolezza: è l'apoteosi dell'inautentico, dell'artefatto, delle sublimi conseguenti finzioni. Se l'autenticità non esiste, se, quindi, la realtà è quasi un barocco teatro del mondo: solo nella finzione, per l'appunto inevitabile, esiste la possibilità di una trasparenza, di un'allusione a quell'Altro che non esiste e che è l'unica possibilità di verità. E' il grande disincanto: «L'identificazione di profondità e superficie, di verità ed apparenza non sta soltanto ad indicare che la verità affiora nelle parvenze, apparendo e rivelandosi in esse, ma allude anche all'inesistenza della verità e del profondo, alla consapevolezza che dietro quella superficie non c'è niente», commenta Claudio Magris citando Hofmannsthal: «die Tiefe ist Draussen», la profondità è fuori, alla superficie. E la superficie degli oggetti letterari e levigata, polita, perfetta nei modelli sembra riprodurre stereotipi: calchi di calchi di altri calchi ancora. Si lavora sul preesistente: tutto è preesistente, tutto è già dato. Sono possibili solo variazioni sul tema. L'unica eventuale certezza è un simulacro di forma, il vuoto ricordo del codice: un rituale che l'ansia restituisce con le stigmate dell'assenza. La crisi tra i due secoli è talmente profonda da non provocare neppure ribellione, come accadrà invece per le avanguardie che, almeno, qualche certezza, sia pure negativa, l'avevano. La scissione tra significato e significante non è una ! bandiera o uno slogan, ma un punto di partenza così tragico da perdere anche i connotati della tragedia, come accade di fronte all'irreparabile. Cosi l'effabilità è affidata alla ripetizione, ai vacui cerimoniali della commedia e dei generi letterari. E infatti in queste poesie non si assiste al tentativo di recuperare la perduta effabilità mediante aggressione (tipica delle avanguardie) al codice letterario. Al contrario: si utilizza il codice, si utilizzano le convenzioni per indicare la cavità, il vuoto che sottendono. Un esempio: nella quinta poesia di Helian, Trakl annulla lo scarto tra «dentro» e «fuori», tra profondità e superficie nella descrizione di una stanza che non si sa più se è interiore o esteriore, forse non è né l'uria né l'altra cosa: è semplicemente lì, sulla pagina bianca: ambiguo e a sua volta ineffabile oggetto testimone della fine della differenza. Giorgio Manacorda
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