L'ARTE, LA REALTA' E IL DISUMANO

L'ARTE, LA REALTA' E IL DISUMANO L'ARTE, LA REALTA' E IL DISUMANO Un sottoprodotto magico Com'era felice la sorte dei pittori quando non esisteva ancora la fotografìa! Ho fatto questa scoperta un giorno verso la fine dello scorso giugno: curiosamente, l'ho fatta in due tempi, uno la mattina e l'altro nel tardo pomeriggio. Milano. Mi ero svegliato alle cinque, quattro solari, e non riuscivo più a prendere sonno. Dai filidur cominciava a filtrare uno smorto grigiore; e, spiando nel buio e sporgendomi verso il letto gemello, capii che mia moglie, giustamente più giovane di me, era ancora immersa nel suo giusto riposo. Attentissimo a non svegliarla, indossai una vestaglia c scivolai fuori dalla stanza. A passi felpati, aprendo e richiudendo dietro di me uno dopo l'altro con estrema delicatezza tutti gli usci, raggiunsi, in fondo al corridoio, la camera da pranzo. Chiusi lì, davanti al video, fino oltre mezzanotte, prima di andarcene a dormire avevamo avuto cura di spalancare le tre porte-finestre che davano sul grande giardino interno: ora, il gelo della notte aveva purificato l'aria; avvertii l'acredine del fumo stantìo solo passando a raccogliere i portacenere. Li posai sulla pietra del poggiolo, in un angolo, incastrati sor to la ringhiera. Rialzandomi, vidi alla mia sinistra, sui vecchi tetti bruni, di là dal giardino, la zona lontana dove il cielo schiariva. Rimasi immobile a fissarla con sollievo strano, come se, per un attimo di follia, avessi dubitato dell'inevitabilità dell'alba. Era pur dolce la vita! Guardai a lungo quel chiarore remoto: constatavo con gioia che davvero lo vedevo crescere: e non mi stancai dello spettacolo se non quando ne fui certo. Mi stancai, mi staccai dalla ringhiera e, forse con l'idea di andare in cucina a farmi un caffè, mi voltai verso la porta-finestra per rientrare. Di colpo, senza fiato, mi fermai sulla soglia. Avevo visto mia madre, alla parete di contro, nella buia camera da pranzo. Sì. Mia madre era là, viva, alta, ardita nella sua bianca, estiva toilette da garden-party. Alonata dal grande cappello di paglia, reggeva su una spalla l'ombrellino di zaffiro cupo che un lieve bordo d'oro delineava appena sullo sfondo di un blu ancora più cupo. Era il ritratto a olio, grandezza naturale, che le aveva fatto Cesare Maggi nel 1919. Da quel grande rettangolo colorato, da quel gemmeo spazio senza tempo, mia madre mi fissava pensosa, amorosa: sembrava di là affacciarsi alla mia vita di adesso, e continuare a sorvegliarla appassionatamente, tra la speranza e i timori, come una volta. Intendiamoci: non che io fossi rimasto spaventato. Conoscevo quel quadro appunto dal 1919: avevo tredici anni e poiché tra le signore, a Torino, Maggi, uomo affascinante, passava per un grand coureur, mia madre mi aveva regolarmente portato con sé, come chaperon, ogni volta che era andata a posare nell'atelier del pittore, in via Genova. Poi, io avevo sempre tenuto il ritratto in casa, e non senza fastidio, per via delle dimensioni. Figuriamoci dunque se ho pensato un fantasma! Al contrario, ero così abituato a vederlo che non lo vedevo più. D'altra parte, a Milano e a Tellaro, ho alle pareti, in cornice, molte fotografìe artistiche di mia madre, donna bellissima e corteggiata. Le fotografie Di colpo, adesso, capii che tutte quelle fotografie erano frammenti inerti, vestigia materiali, immagini fredde o addirittura false, dove non restava che una scorza secca della vita di mia madre — e questo ritratto, invece, era qualcosa di infinitamente diverso e infinitamente di più. Questo ritratto era come se il pittore, catturando l'anima di mia madre con un potere magico, soprannaturale, e allo stesso tempo molto più naturale della fotografìa, fosse stato capace di perpetuare la vita. Maggi era un postimpressionista di grande scuola e cultura, padrone di una tecnica ben precisa e di tutti gli accorgimenti del mestiere. Ciò malgrado è chiaro, mi dissi, è chiaro che, ritraendo mia madre, Maggi aveva uno scopo unico e centrale: comunicare al ritratto, per quanto possibile, la vita del modello. La sua preoccupazione essenziale, mentre dipingeva, non era di come dipingere, era soltanto di ritrarre mia madre così che il quadro le assomigliasse nei tratti fisici e ancora di più nell'espressione, nella posa, nello sguardo, nel respiro. Sennonché, si trattava di un falso scopo. Copiare la realtà era per Maggi un falso scopo, che però lui credeva fermamente un vero scopo e che proprio per questo era necessario alla creazione: solo così, imitando la vita, si dà la vita a un'opera. Maggi non aveva cercato la bellezza, l'arte. Lo stile pit torico e venuto per conto suo, indipendentemente dalla volontà di Maggi, e forse addirittura a sua insaputa. Che cos'è l'arte se non un sottoprodotto della vita? Improvvisamente, mi ero ricordato di Jean Cocteau: di quello che Cocteau mi aveva detto, la prima delle poche volte che ho avuto la fortuna di incontrarlo. Fu a Cannes, sulla Croisette. Ricordo il punto preciso: davanti a Felix Ce l'aveva con quelli che, continuamente, in letteratura, in arte, in cinema, parlano di stile: «Le style, c'est de cherchir de ne pas en avoir un — mais, sansy parvenirf». Dunque: lo stile è cercare di non averne uno, ossia: l'artista vero non pensa mai a come scrive, a come dipinge, a come gira un film; l'artista vero pensa soltanto a ciò che scrive, a ciò che dipinge, a ciò che filma — ma senza riuscirci, ossia: l'artista trova ogni volta lo stile solo quando, tutto preso dall'argomento, dal modello, dal soggetto, e studiandosi di riprodurlo il più fedelmente possibile, cerca, nel suo disperato amore della realtà, di evitare lo stile ma non ci riesce. Il pomeriggio di quello stesso giorno dello scorso giugno, da Milano sono tornato a Tellaro dove, per caso, verso sera, ho visto le opere che il pittore Giuliano Tomaino stava raccogliendo in preparazione di una mostra personale. Tomaino è nato alla Spezia. Ha trentatré anni. Dipinge soltanto quadri astratti, informali, materici. Chiedo scusa, ma sono costretto a confessare che non sono in grado di distinguere con sicurezza tra queste definizioni. Non mi sono ancora abituato alla pittura di oggi. E ancora non so, quando mi ci trovo davanti, se faccio bene o faccio male a seguire mio istinto, che è irrimediabilmente figurativo e narrativo. E' giusto o no che io cerchi, ogni volta, di scoprire, immaginare, magari inventare di sana pianta il soggetto, la realtà figurativa e umana che queste opere rappresentano? Forse sbaglio, e i imiei amici Testori, Brandi, Ragghianti, certo rideranno di me. Pazienza. Ecco, al di là di un fìtto, minuto reticolo di parallelogrammi verticali, lievemente irregolari, quasi tremanti, tutto costruirò come con sottilissimi fili metallici, ecco un grande cielo celeste, chiaro, sparso di vaghe nuvole bianche. Una finestra? In ogni caso, sembra una finestra a cui sia tesa una bizzarra zanzariera. «La realtà, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra», dico ridendo a Tomaino. E in realtà, realtà naturale e culturale, si tratta di un Cielo tiepolesco. In un altro quadro, il cielo è notturno: notturno, ma rosso: apocalittico. E le stelle, manco a dirlo, sono nere. Mi pare, tuttavia, di distinguere alcune costellazioni che conosco, in particolare una. Chiamo questo quadro Cassiopea. Un altro ancora. Che cos'è? Vedo un vortice subacqueo tutto di verdi: lo attraversa diagonalmente un arpione che piomba giù... oppure è un siluro che schizza su? Nell'abisso, dico a Tomaino. E intanto mi chiedo: perché mai provo il bisogno, ogni volta, di battezzare, di integrare così, con il ricordo di una realtà, ciò che i mici occhi vedono? Una tormenta Ecco ora La sbarra: una larga sbarra come di rame che tiene aperto a forza un pesante portale scorrevole di cemento, e scopre di là, in mezzo, tra le due ante, una profonda, misteriosa nerezza. Pioggia investita da un vento che ne assottiglia e dirige le gocce in un solo, grande fascio di piccoli segmenti paralleli. Pioggia? Piuttosto una delicatissima tormenta, che sembra grigia ma a poco a poco scopriamo che è composta di infinite freccette multicolori, alcune delle quali luccicanti, di cristallo d'argento d'oro. Penso alla vecchia canzone: Come pioveva. E poi, Distacco. Due pezzi forse di antica pergamena, qua e là bruciacchiata, gocciolante di cera rappresa, gli orli unti e bisunti, qualche macchia scarlatta, e qualche macchia marrone. La pergamena doveva, una volta, essere intera: si vedono i brandelli di scotch che tenevano i due pezzi insieme. Forse è il dorso di un prezioso documento che qualcuno ha trovato così, strappato a metà, e poi ha tentato di aggiustare. Tra i due pezzi, al centro, appare una striscia appiccicosa quasi di nera pece. Sono i colori, le materie di Burri. Infine, 1890. Felicità perduta. Un Jackson Pollock nostalgico di Belle Epoque. Un'esplosione pollockiana di un enorme mazzo di fiori jadis artisticamente arrangiati in un Savona ormai scomparso, petali fronde foglie, rossi ciliegia, porpora vinosi, gialli squillanti, grigi di tutte le sfumature, verdolini pallidi, bianchi biancastri e appassiti... Che cos'è successo, in questo secolo, ai pittori? Per capirlo, bi¬ sogna forse ricordarsi di una vecchia regola: davanti a una pittura, come davanti a qualsiasi opera d'arte, bisogna distinguere tra il soggetto apparente e il soggetto vero. // soggetto apparente — la realtà, il modello, il paesaggio, la natura morta che i pittori una volta copiavano o, piuttosto, credevano di copiare — poteva essere, per loro, volontario e consapevole. Ma /'/ soggetto vero — Io spirito vitale che, come dice Cocteau, si trasforma in stile — doveva essere involontario e inconsapevole. Ai nostri pittori è successo semplicemente questo: una tremenda iattura. Dopo l'invenzione e con il crescente sviluppo della fotografìa, i nostri pittori non hanno più potuto illudersi tanto facilmente di copiare la realtà: hanno dovuto rinunziare al falso scopo. E così anche il soggetto vero è diventato volontario e consapevole, perché i pittori sono stati costretti a cercarlo nella fantasia, la quale scivolava irresistibilmente nella volontarietà e nella consapevolezza del modo di dipingere. Non più la realtà, non più la vita, ma l'arte stessa è diventata il modello dell'arte. Naturalmente, sono esistiti ed esistono grandi e veri pittori astratti, informali, materici. Abbiamo citato Pollock e Burri. Potevamo nominare De Staci, Fautrier, Dova, molti altri. Ma come hanno risolto, allora, questi grandi, il problema dell'involontarietà e della inconsapevolezza necessarie? In un modo solo: credendo nelle loro proprie fantasie, nei propri sogni, deliri, incubi, allucinazioni, ossessioni visive, credendoci strenuamente, senza interventi razionali, credendoci né più né meno che in altrettante realtà corpose, massicce, ricchissime di ricordi personali e di riferimenti pittorici: della memoria, inconsapevole o semiconsapevole, di ciò che i loro occhi hanno visto, comprese le opere degli altri pittori. Si tratta di una fede nuova, semplice, ardua, e forse anche, nel profondo, diabolica: ma è una fede necessaria, ed è l'unica possibile per coloro che non hanno più la forza di dimenticare l'esistenza della fotografia. Il gusto, oggi, va verso il disumano. Mario Soldati

Luoghi citati: Cannes, Milano, Torino