Panatici: un problema sportivo e industriale di Edmondo Fabbri

Panatici: un problema sportivo e industriale Il campione fallito due volte Panatici: un problema sportivo e industriale Reduce dalla sconfitta in Ungheria, che per il tennis italiano equivale alla Corea del calcio, emblema della mortificazione massima, oggi Adriano Panatta, come Edmondo Fabbri dodici anni fa, raccoglie critiche, ironie e pomodori. Ma a differenza del piccolo e complessato allenatore, il popolare tennista non respinge sdegnosamente i pomodori, anzi ne estrae abbondante sugo per condire colossali spaghettate al largo della Sardegna dove su una barca, priva di remi ma dotata di molti posti letto e di un adeguato motore, cerca di dimenticare la sconfitta nella Coppa Davis, confortato in questo tentativo dalla presenza della moglie Rosaria e di alcuni amici. Gli mancano i milioni, malamente investiti nella General Sport, gli manca la stima dei suoi tifosi delusi dalla sconfitta confo Szoke, il «coreano» con la racchetta anche se privo di occhi a mandorla. Non gli mancano però gli amici, quelli che contano. Per sottrarlo ai giornalisti e ai pernacchi dei tifosi, al rientro in patria da Budapest, lo hanno prelevato con un jet personale, lo hanno paracadutato su uno yacht e gli nanno raccomandato di star tranquillo: sole, spaghetti e nuotate (possibilmente due ore dopo i pasti). « Non vedo l'ora di riscattarmi, è una questione d'onore », ha detto Panatta dopo la sconfitta sul court di Budapest. L'opportunità gli viene offerta da uno dei più prestigiosi tornei in America, fra venti giorni. Per una « questione d'onore » si allena sullo yacht, al largo della Sardegna, senza rincorrere le palle che finiscono in mare. L'ironia è istintiva nei confronti di un campione che diverte come pochi, che è popolare come nessuno forse, più di Borg almeno in Italia, ma che probabilmente si è arreso, non ha più voglia di soffrire, quindi di allenarsi, di viaggiare, di alzare la racchetta. Di lui, un giorno, Nicola Pietrangelo contro il quale Panatta strappando il titolo nazionale iniziò la sua escalation, disse: « Gli rimprovero sempre di essere troppo triste in campo. Gioca come se fosse la sua ultima partita ». Forse la sua ultima partita, tra quelle che contano, è arrivata a Budapest contro Szoke, e soltanto un miracolo di volontà può rialzarlo dalla polvere agonistica nella quale è andato a ruzzolare. Lo schiaffo morale, considerato il suo carattere, la sua natura psicologica, probabilmente non è tale da smuoverlo per recuperare le posizioni e il prestigio che ha perso in campo mondiale. Avrebbe già dovuto stuzzicarlo, roderlo, il fatto che prima dell'inizio della Coppa Davis l'amico Corrado Barazzut ti, attraverso i risultati dell'ultima stagione, l'aveva detronizzato dal piedistallo del « numero 1 » in campo italiano. Invece, si è allenato ugualmente poco, e male, prima di Budapest, confidando che la sua classe, contro avversari teoricamente inferiori, fosse sufficiente per superare il turno. Detronizzato come tennista u number one », fallito come industriale, sembra fallito anche come indossatore di scarpe, calzettoni, pantaloncini maglietta, racchetta, tutto quanto serviva pubblicitaria mente ad incrementare i suoi già notevoli incassi con le competizioni alle quali partecipava. Il Panatta del 1976 vincitore dei tornei interna zionali di Roma e di Parigi alfiere della conquista della Coppa Davis in Cile, fruttò milioni a palate allo stesso Panatta al quale non bastavano le due tasche dei pantaloni per incamerare assegni. Uno però venne a mancargli ed era il più consistente, quello della General Sport. Doveva percepire cento milioni per il contratto pubblicitario. Gli dissero: siamo sulla strada del fallimento, non li abbiamo. Probabilmente consigliato dagli amici, allora Adriano decise di rilevare l'84 per cento delle azio ni dell'industria genovese per articoli sportivi. Adesso è fallita sul serio e con lei il bel tennista che, per recuperare cento milioni, ne ha persi seicento, mille lire più mille lire meno (e ha coinvolto nel tracollo 65 dipendenti). Un uomo che al culmine della carriera guadagnava trecento milioni all'anno, così ridotto, ha validi motivi per recarsi al largo della Sardegna e farsi un lungo bagno. E' opinione generale che i suoi amici, ricchi, oltre a prelevarlo in jet e offrirgli la barca, sapranno toglierlo dai guai. Come uomo, insomma non sembra fallito, come tennista probabilmente si. " Perché Panatta campione lo è diventato grazie anche ad una predisposizione naturale, ma soprattutto grazie ad un lungo ed estenuante lavoro dei preparatori atletici impegnati a rinforzargli i muscoli delle gambe, delle braccia, delle spalle, in modo da rendere il « giocattolo » perfettamente funzionale. Un lavoro al quale Adriano si è sottoposto con autentico impegno e notevoli sacrifici perché mosso dall'ambizione di affermarsi, di vincere. Sintomatico quanto dice di lui Belardinelli, il suo maestro e preparatore atletico: « E' un ragazzo che ha dovuto faticare moltissimo per raggiungere grandi livelli, al di sopra della sua naturale portata. Mantenersi su quello standard, che definirei artificiale dal punto di vista fisico e atletico, gli costa enormi sacrifici e sofferenze. E anche paura. Essendo un campione costruito, e lui lo sa, comprende che corre il rischio di tornare ad essere "non campione" ». Ecco siamo alla svolta, alla verità. Proprio l'incontro di Davis a Budapest, come precedenti incontri, ha dimostrato che Adriano Panatta, senza adeguati allenamenti e sacrifici, è tornato un tennista qualunque, come lo era agli inizi della carriera, prima di battere Nicola Pdetrangeli. A forza di vincere, si è illuso di poter continuare a farlo anche rientrando in un giro di dolce vita che ad un bel ragazzo come lui sembra congeniale. Quando si è accorto che così non era, così non poteva essere, ha cercato, senza trovarla, la forza per soffrire come una volta. Non ci è riuscito e a ventotto anni, dopo tanti soldi (buttati là, ma guadagnati), dopo tante vittorie, sembra non abbia più voglia di 'ricominciare da capo. Si tiene buoni gli amici importanti perché domani, che poi è oggi, quando non sarà più il « number one », lo aiutino nelle diverse direzioni in modo da non perdersi, almeno come uomo. Franco Costa