La grande nave e il suo pilota di Vittorio Zucconi

La grande nave e il suo pilota La grande nave e il suo pilota Uscita da questo inverno terribile, sicuramente il più severo nella sua vita trentenne, la Democrazia Cristiana si guarda allo specchio del suo Consiglio nazionale, la prima, importante scadenza interna del '78 in attesa del Congresso nel 79. In due giorni, da domani a sabato, dovrà compiere una scelta che in passato fu soprattutto rituale ed oggi ha acquistato sostanza politica e forti valori simbolici: colmare alla presidenza del Consiglio nazionale il vuoto lasciato da Aldo Moro. Forse per i postumi dello choc, forse per l'avanzare, seppur zigzagante, del processo di rinnovamento, la de sembra arrivare a questo incontro con se stessa senza le lotte selvagge che in passato avevano segnato i suoi appuntamenti di partito. Solo lo scatto di un antico purosangue e lo scalpitare dei giovani cavalli del Nord che avvertono odore di emarginazione hanno agitato brevemente la vigilia, ma ora pare sicura l'elezione di Flaminio Piccoli alla carica di presidente e per di più, come vuole ormai la prassi politica del tempo, con un « vasto consenso », con una « larga convergenza ». La lettera di Fanfani, con il suo tono fra il polemico e il generoso, è un « beau geste », la temporanea uscita di scena di un grande della de, troppo intelligente per non aver capito quali rapporti di forza e di necessità oggi dominano il partito. La scelta di Piccoli, se Piccoli sarà, è un'altra vittoria e un consolidamento dell'alleanza interna che da due anni governa la de e che raccoglie nel segno della realpolitik se non dell'affinità profonda, dorotei (PiccoIi-Bisaglia), andreottiani e la costellazione della sinistra che si riconosce in Benigno Zaccagnini. Su quest'asse, che non dà sensazioni visibili di imminente rottura a parte irrequietezze della corrente di Base, la de ha trovato un equilibrio magari in negativo (non esiste una alternativa proponibile, è dettata dalle circostanze) ma rivelatosi capace di portare il partito indenne attraverso colpi, svolte, battaglie altrimenti squassanti. Quest'asse ha, nel medico ravennate, un leader forse non energico, come lo vorrebbe De Carolis, o sofisticato, come lo vorrebbe chi rimpiange la mente di Moro, ma certo di popolarità e limpidezza straordinarie. Sempre più capace, notano con preoccupazione i suoi avversari, anche di muoversi nella selva de, in cui pareva destinato a smarrirsi. Dal trauma del rapimento e poi dell'assassinio di Moro, Benigno Zaccagnini è uscito, dopo lo struggimento di quelle ore, rinsaldato — dice chi gli sta vicino — e politicamente cresciuto. Costretto con violenza a superare una tutela politica che aveva connotati paterni, perciò insieme rassicuranti e limitativi, oggi il segretario de appare inamovibile anche ai suoi avversari e questo toglie a priori dalle « conspiracies » interne de, un elemento indispensabile ai piani dei potenziali congiurati, la segreteria, e dunque grandemente riduce la tensione. Ma sarebbe ingenuo vedere in questo partito, capace di ribellioni e di discipline altrettanto imprevedibili, una società di mutuo soccorso ormai rappacificata sotto Zaccagnini. Gli umori velenosi, le manovre, i progetti politici e personali corrono come un fiume carsico, sotterraneo ma pronto a riaffiorare se si allentasse la durezza del contesto. Si è visto Amintore Fanfani risollevare il capo per guardare, si dice ma lui nega, lontano, verso una futura presidenza del Consiglio. E' nota l'irrequietudine della destra che, tra l'abbandono decretato dai suoi grandi elettori giornalistici e l'ostracismo della dirigenza in carica, si sente in un « no men's land» bersaglio di tutti e alleata di nessuno. Si è avvertito qualche sintomo di spostamento nella Base, in direzione di Fanfani. Mentre la presidenza data a Piccoli è anche un modo per disinnescare in anticipo latenti malumori dorotei. Per ora tuttavia non sono che lenti movimenti di rotazione e rivoluzione interni alla galassia democristiana (« ma non nebulosa » preciserebbe il senatore Sarti) che non sembrano spostare l'assetto visibile del partito. E dunque, ciò che a noi come cittadini e governati in ultima analisi interessa, non mettere in pericolo il governo, al quale l'elezione di Pertini e la soluzione del problema presidenziale de con Flaminio Piccoli, garantiscono una vita di qualche tempo più lunga e più salda. Il Consiglio nazionale della de, piccolo Parlamento di 202 democristiani che contano, non si preannuncia dunque in termini di scontro e di rivolgimento. Semmai, come un'occasione sottile di assaggi e tentativi volti più che a ottenere risultati immediati, a creare le premesse per il proseguimento della battaglia. Può valere per la de un'immagine che Kissinger usò per l'America: «Una grande nave i cui spostamenti di rotta sono impercettibili al momento e solo col passare del tempo si rivelano nella loro ampiezza ». Ora la « grande nave », dal carico instabile e dalla bandiera crociata, sembra arrivata vicina anche a nodi di generazione, dunque di filosofie di fondo che per ora convivono, ma si preparano al confronto. Nuovi modi di fare politica, di « gestire » e di pensare il potere e il rapporto con la Chiesa si vanno affiancando a quelli tradizionali. Nuovi istituti nati quasi per caso emergono, come la « delegazione », quel ristretto gruppo di alti esponenti del partito che ormai tratta e decide per tutti nei momenti cruciali (e di cui fa parte il presidente del Consiglio nazionale). Tutto questo si agita e si mescola dentro la de del 1978 e l'immagine che il Consiglio di domani ci darà di essa sarà dunque un'istantanea un po' mossa, ma politicamente importante e umanamente drammatica: la prima foto di gruppo de, senza Aldo Moro. Vittorio Zucconi

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