Dall'età del dialogo all'età del colloquio
Dall'età del dialogo all'età del colloquio Dall'età del dialogo all'età del colloquio Il primo fascicolo di Colloquio a Torino. Cattolici, laici, marxisti attraverso la crisi (Ed. Stampatori, Torino), con scritti di Giorgio Amendola, Norberto Bobbio, Franco Bolgiani, Siro Lombardini ed altri, del quale, al suo esordio, già La Stampa ha ampiamente parlato, suscita in me altre considerazioni. Solo qualche anno fa si parlava di dialogo; ora siamo al colloquio. Non credo vi sia grande differenza sul piano etimologico (a parte l'origine greca o latina) fra le due parole. Ma certo il passaggio dal dialogo al colloquio non è occasionale: colloquio ha un che di meno solenne, più semplice, e il cambiamento della parola sottolinea un distacco dalla fase precedente. La stagione del dialogo ha avuto negli. Anni Sessanta patroni molto autorevoli. L'esigenza di «incontri ed intese» fra cristiani e non cristiani già annunziata da Giovanni XXIII nella Mater et magistra (1961) è esplicitamente formulata nella Pacem in tetris (1963). La parola dialogo unita agli aggettivi «prudente e sincero» compare nel documento conciliare Gaudium et spes (1965) come condizione per contribuire alla «retta edificazione di questo mondo» nel quale cristiani e non cristiani vivono insieme. Quasi in coincidenza con la Pacem in terris di Giovanni XXIII, Palmiro Togliatti pronuncia il famoso discorso di Bergamo nel quale afferma: «Bisogna considerare il mondo comunista e il mondo cattolico come un complesso di forze reali... e studiare se e in qual modo di fronte alle rivoluzioni del tempo presente e alle prospettive di avvenire siano possibili una comprensione reciproca, un reciproco riconoscimento di valori e quindi un'intesa e anche un accordo per raggiungere fini che siano comuni in quanto siano necessari, indispensabili per l'umanità». Sia il Papa che Togliatti escludono commistioni ideologiche: «I nostri figli siano vigilanti — afferma Giovanni XXIII — per non venire mai a compromessi riguardo alla religione o alla morale»; e Togliatti dal canto suo: «Abbiamo sempre respinto i tentativi di auspicare un avvicinamento fra comunisti e cattolici sulla base di una qualsiasi forma di compromesso ideologico». Ma negli anni di quella prima «età del dialogo», come l'ha chiamata Luigi Accattoli in un suo saggio comparso in Cristiani nella sinistra (Ed. Coines, Roma 1976), di fatto la edificazione del mondo è affidata, in Italia, al riformismo del centro sinistra, presto inceppato, e il dialogo non si sviluppa su problemi concreti ma prende presto la via dei massimi sistemi. Il volume Dialogo alla prova, a cura di Mario Gozzini, che compare nel 1964, esclude ogni finalità politica e si propone un obiettivo culturale ambizioso: «trasformazione e rinnovamento» dei comunisti come scrive lo stesso Gozzini nella introduzione. Due anni dopo nel volume di don Giulio Girardi Marxismo e cristianesimo (1965) si delinea l'ipotesi di un «ripensamento dall'interno del marxismo». Ma alcuni anni più tardi al primo congresso dei «cristiani per il socialismo» (1973) lo stesso Girardi dichiara superata la fase del dialogo in nome dell'unità dialettica fra marxismo e cristianesimo». Cosa è successo? Perché, a dieci anni di distanza, lo spirito del dialogo è così diverso dalle posi zioni di partenza? Per dirla in una parola — ma il tema è certamente assai ampio e complesso — da parte cattolica si è puntato so prattutto sulla «compatibilità», sulle condizioni cioè perché i cri. stiani possano. trovare spazio nei movimenti di matrice marxista diretti alla edificazione della società socialista. Il dialogo, che dal terreno pratico si è spostato su quello teorico, non verte sulla bontà della società socialista ma, dandola per scontata, sulle condizioni perché anche i cristiani possano contribuire a realizzarla. I cristiani pongono condizioni per la loro adesione, ma danno per scontato l'obiettivo del socialismo. In molti ambienti della sinistra cattolica si rifiuta la nozione di «movimento cattolico» perché ambigua in ragione del suo interclassismo: il nuovo soggetto al quale si guatda con fiducia, in nome della unità di classe, e in vista della nuova egemonia, è il «movimento operaio». In molti casi il soggetto è cambiato, ma la mentalità da «storia sacra» è rimasta la stessa. Si sottolinea l'idea di pluralismo — credenti e non credenti — ma all'interno della società socialista da costruire. • . A differenza di quanto accadde all'inizio del secolo, quando la domanda di due cattolici di iscrizione al partito socialista fu rifiutata per incompatibilità ideologica, i riconoscimenti di compatibilità sono larghissimi. Riccardo Lombardi su Mondo operaio sottolinea che si può essere socialisti non «sebbene cattolici», ma «anche se cattolici» e non scrive «perché cattolici» perché non persuaso della validità di un «cristianesimo unidimensionale». Ma molti cattolici vanno oltre e si dichiarano socialisti «perché cat¬ su«zobs«cuhcdcpd tolici» e «cristiani per il socialismo». Si sottolinea, per riprendere una espressione di Lucio Magri, la «tensione religiosa» che la presenza cattolica garantisce alle lotte operaie. Luigi Covatta, responsabile della sezione culturale del psi, scrive su Mondo operaio nel '76 che «la confluenza della componente cattolico-popolare nella tradizione unitaria del movimento operaio ha contribuito a un mutamento complessivo del modo di essere del movimento operaio stesso». I comunisti sono i più cauti. Questi a grandi tratti alcuni precedenti del «dialogo»: precedenti come si vede di immedesimazione più che di dialogo culturale, in cui gli uni portavano la loro fede, gli altri le loro ideologie e non, gli uni e gli altri, le loro culture e il loro spirito critico. Da questi precedenti si stacca nettamente il Colloquio a Torino. Si riconosce, in apertura del fascicolo, la crisi che travaglia il sistema capitalista, ma si sottolinea che il socialismo come alternativa ha perso molto del suo prestigio. Di qui l'impegno di una comune ricerca. In questa comune ricerca la componente «laica» è essenziale ed è rappresentata, in questo primo fascicolo, da un acuto saggio di Norberto Bobbio Cultura laica. Una terza cultura? Bobbio nega che la cultura laica sia un tertium genus fra cultura cattolica e cultura marxista ed approda ad una assai stimolante affermazione: «Non vi è una cultura laica distinta da una cultura non aica: ma ogni cultura, ivi comprese quella marxista e quella cattolica... ha i suoi intellettuali laici e i suoi intellettuali clericali... Anche quelle culture che si chiamano laiche, in contrapposizione al marxismo e al cattolicesimo, hanno i loro clericali». Bobbio ha ragione. Solo se si valorizzano, all'interno di ogni cultura, le componenti autenticamente laiche il dialogo (o se si vuole il colloquio) è possibile e con esso la convivenza nella democrazia. Quando in nome del dialogo si abbandona la propria identità culturale non si fa un passo avanti ma si esaspera, per contraccolpo, la chiusura al dialogo del mondo da cui si è usciti. Assai giustamente Franco Bolgiani al termine di un attento saggio su L'area cattolica italiana dal monolitismo al pluralismo giunge a porsi il problema di una «identità» che il pluralismo non esclude e che è la necessaria condizione di una «autenticità» cristiana da esprimere attraverso mediazioni culturali articolate e complesse. Siamo ben lontani dalle sbrigative liquidazioni del «movimento cattolico» perché interclassista che caratterizzarono gli anni del dialogo! Giorgio Amendola (ma forse con spirito troppo difensivo) pone in risalto l'evoluzione storica del partito comunista rispetto alle sue origini e ai suoi riferimenti ideologici. Una intervista del gesuita Costa allo studioso comunista Cardia approfondisce il tema del rapporto fra marxismo e pluralismo. Quel che preme sottolineare è lo spirito nuovo di questo «colloquio»: senza atteggiamenti subalterni da parte di alcuno e senza obiettivi già scontati che hanno reso il dialogo degli anni passati confuso e infecondo. Pietro Scoppola
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