Walter Benjamin il mio amico

Walter Benjamin il mio amico PERCHE SI UCCISE, SEGNATO DALLA TRAGEDIA EBRAICA Walter Benjamin il mio amico ROMA — Solo tre o quattro persone al mondo avrebbero capito che cosa intendesse dire realmente Walter Benjamin nella sua introduzione (notissima e citatissima) a II dramma barocco tedesco. E tra queste tre o quattro persone nessuno dei suoi amici, nessuno dei francofortesi, Horkheimer o Adorno, e forse nemmeno lui stesso, Walter Benjamin... Il ghignante paradosso è di uno straordinario personaggio vissuto per i.nni con Benjamin, dall'Infanzia berlinese al matrimonio-sodalizio con Dora, un witness che sa tutto di Benjamin tanto da poterne dissipare molti misteri e molte aure ma al quale nella raccolta di lettere (apparsa recentemente da Einaudi) i curatori Scholem e Adorno dedicano in nota appena tre righe di biografia. Non è uno scrittore né un filosofo di professione, è un ebreo anglo-tedesco, libraio antiquario e clerc, uno appunto di cui si può dire che abbia letto « tous les livres » e ne abbia tratto l'unica morale possibile, un affascinato scetticismo per tutto ciò che è letteratura ed un ilare entusiasmo nel vilipenderla. Questo superstite di quel gruppo di gente eccezionale che stava intorno a Benjamin (gli altri sono tutti morti) si chiama Herbert Belmore, ha un anno meno di quanti ne avrebbe oggi Benjamin se non si fosse suicidato nel '40, cioè ottantacinque. Vive a Roma, assolutamente sconosciuto, sotto i tetti di un cupo palazzo dietro piazza Navona. Nella traduzione italiana di quell'epistolario è presente con due lettere che Benjamin gli ha indirizzato; una lunghissima del 1913 ed un'altra del 1916. Ma nella raccolta originale, quella che Adorno e Scholem pubblicarono da Suhrkamp nel 1966, le lettere ad Herbert Belmore sono molte di più. « Non so nulla di questa edizione italiana » mi dice ruotando gli occhi quasi ciechi e sgranando le ambre del suo kombuloi che è l'equivalente di un rosario, concepito per aiutare la meditazione o la fuga dei pensieri, diffuso in Medio Oriente. « Ma pos- so immaginare le ragioni per cui non vi appaiono tutte le lettere a me indirizzate ». Herbert Belmore, arrivato nel 1908 in Germania da Capetown dove era nato, conobbe Benjamin al « Kaiser Friedrich Gymnasium », la scuola più elegante di Berlino. « Ricordo che allora i suoi idoli erano il poeta svizzero Cari Spitteler e — benché non sapesse nulla di musica — il compositore Anton Bruckner; la sua precoce genialità fece colpo su tre o quattro di noi che diventammo suoi amici, quasi suoi succubi, mentre gli altri ragazzi lo trovavano detestabile e presuntuoso. Una volta la settimana ci riunivamo per leggere insieme Schiller o Shakespeare, Hauptmann e Maeterlink e dopo ne discutevamo, passeggiando o nuotando: io ero un formidabile nuotatore, Walter annaspava». In Infanzia berlinese il ragazzino Benjamin annaspa smarrendosi nella città-foresta. E' la prima immagine del libro. Il ragazzino Belmore, che ha memorizzato tutto questo, òggi è un vecchietto ravvolto sino alle orecchie in un plaid di strinato tartan. La sua casa è gelida; la loro amicizia dev'essere stata inquieta e stridente. «Ma anche in quelle occasioni i suoi, di Walter, erano Katerideen, concetti astrusi ». Il giudizio di Belmore ora si precisa nella convinzione che Benjamin non fece che dissipare se stesso e la sua genialità in una tormentosa contraddizione che lui, Herbert Belmore, attribuisce al suo essere tedesco ed al suo essere ebreo. Il fatto più importante nella vita intellettuale di Walter Benjamin, ma anche nella sua sfera puramente emozionale, fu la sua adesione al marxismo che non va spiegata freudianamente come espressione dell'odio verso il padre e ciò che rappresentava: « Per Walter l'attrazione del marxismo fu come il bisogno di entrare in una chiesa; di perdere in qualche modo l'indipendenza intellettuale in cambio della sicurezza del dogma, perché ormai si era tagliato dietro tutti i ponti: non aveva famiglia, religione, amici, non professione, né denaro, né patria. Eppure poche persone avevano bisogno come lui della sicurezza interiore che tutte queste cose danno». « Quando Scholem, che fu l'unico ad essergli amico fino in fondo, gli contestò la razionalità della sua scelta marxista, il suo disinteresse per le masse, il carattere elitario dei suoi scritti, racconta Beimore, Benjamin gli scrisse (lettera raccolta nell'epistolario edito da Einaudi, n.d.r.): "Hai ragione, io scrivo per il pubblico del West-End di Berlino, anzi per la crema di quel quartiere ma lasciami appendere la bandiera rossa fuori dalla finestra" ». Belmore pencola ansioso fuori dal guscio di tartan. « Mi dica, ha mai un intellettuale giustificato se stesso in termini più fragili ed inconsistenti? Ma Walter per primo soffriva orribilmente per questi conflitti. Quando si uccise nel 1940, non era la prima volta che attentava alla sua vita ». Belmore visse totalmente l'esperienza matrimoniale di Benjamin; l'abbandono della prima fidanzata Grete Cohn-Randt, le nozze con Dora, la paternità ed il successivo rifiuto di tutte le responsabilità che ne derivavano con la fuga. Risponde: « Le sue scelte pratiche erano come ì suoi pensieri, slegate dalla realtà; in alcuni momenti esse sfiorano la vetta dell'eccezionalità, del genio; poi diventano oscure ed immotivate. Consapevole di questo, già nel '36 Walter tentò di uccidersi. Guardi che stiamo parlando di uno degli uomini più profondi e più dotati di forza spirituale che la comunità ebraica tedesca abbia espresso prima del suo sterminio... Il suo era come un tormen¬ toso flusso di pensieri, ora scintillanti ora oscuri ed egocentrici, senza luce. Ricordo di aver viaggiato con lui, da ragazzo, su un treno svizzero, credo da Losanna a Ginevra, e disse che la vita in gioventù è come gli alberi che allora ci correvano incontro, la maturità come le foreste più lontane, che sparivano più lentamente, la vecchiaia buia e misteriosa come le colline che rimanevano immobili sullo sfondo. Credo che lui avesse paura di quelle colline». Estenuato, Belmore depone il kombuloi... « Mi stava parlando del suicidio del '40, quello che portò sino in fondo ». « Sì, nel settembre di quell'anno quando fallì il suo tentativo di scappare dalla Francia e mettersi in salvo negli Stati Uniti, Paese che peraltro detestava. Hanna Arendt ci raccontò come non si trattasse solo di sfortuna. Forse Benjamin avrebbe potuto fuggire come la maggior parte degli intellettuali ebrei che lasciavano l'Europa attaccata da Hitler. E' probabile che andasse cercando una ragione storica per morire e l'abbia trovata in quel rifiuto dell'alcàde che non voleva far entrare il gruppo di ebrei in Spagna perché raggiungessero Lisbona e poi gli Stati Uniti; l'indomani l'alcàde cedette, gli altri passarono ma Benjamin si era suicidato nella notte; è sepolto da quelle parti ma la sua tomba non si è mai trovata; tutto sbagliato nella vita di Walter ed anche nella morte... ». Scendo le umide scale della casa di Belmore; penso ad una curiosa coincidenza, ad un altro inspiegabile suicidio di trent'anni dopo, quello di Peter Szondi, il geniale giovane critico ebreo (formatosi alle letture di Benjamin) annegatosi nello Halensee di Berlino il 18 ottobre del 1971; un mese prima il suo amico francese Paul Celan era scomparso nella Senna; anche lui segnato dalla tragedia ebraica. Quando esco per le strade di Roma, di questa Roma che annaspa nell'angoscia, penso che una cappa di piombo è calata sull'Europa mezzo secolo addietro; ed è ancora su noi. Vanni Ronsisvalle Walter Benjamin: genialità e contraddizione