E' di moda la teoria dei tre mondi

E' di moda la teoria dei tre mondi INCOMINCIATA IN CINA LA SECONDA "LUNGA MARCIA E' di moda la teoria dei tre mondi Sono le superpotenze, i Paesi industrializzati, le nazioni in via di sviluppo - Pechino è convinta che il secondo (Cee) e il terzo (Cina), legati insieme, possano resistere al primo (Stati Uniti e Unione Sovietica) - Scatta la molla della "Westpolitik" DI RITORNO DA PECHINO — La vera svolta in politica estera, la Cina l'ha compiuta il 3 aprile scorso, firmando il trattato commerciale con la Cee. In quella data è incominciata la Westpolitik, l'avvicinamento all'Occidente, che corona e supera, con un salto di qualità, la diplomazia del ping-pong. Mentre nelle intenzioni dì Mao Tse-tung e Ciu En-laì l'interlocutore privilegiato era l'America, in quelle del presidente Hua Kuo-feng e del vicepresidente Teng Hsiao-ping lo è l'Europa. Essi vedono nella Cee (e nella Nato) l'alleato naturale per il contenimento delle superpotenze, e soprattutto dell'Urss, «socialnazionalista e neoimperialista». Hua auspica l'unione «anche militare» della Comunità, asserendo che «se la forza di un dito è debole, quella del pugno è possente». In essa individua il veicolo delle « quattro modernizzazioni », del progresso cioè dell'agricoltura, dell'industria, della tecnica e degli armamenti. Le differenze politiche e sociali non gli piiono condizionanti. In Italia, il pc ha denunciato questa strategìa come la creazione di «un blocco eurocinese in funzione antisovietica». La Westpolitik assume aspetti clamorosi. Il vice di Teng (il quale è anche maresciallo delle forze armate), il generale Chiang Aì-pìn, passa dalla Germania alla Francia all'Italia alla ricerca di materiale bellico. Egli afferma che «non si distrugge il carro armato nemico con l'ideologia» e vuole radar, cacciabombardieri supersonici e missili. Li Hsien-nien, uno dei leaders del partito, avverte Lord Chalfont in visita a Pechino che presto chiederà alla Gran Bretagna l'apertura di una «modesta» linea di credito. Da un continente all'altro, il traffico delle delegazioni è ininterrotto, siano quelle cinesi negli Stati Uniti per l'acquisto di attrezzature sottomarine, siano quelle della Fiat in Cina per la fornitura di fabbriche di trattori. La molla della Westpolitik è il bisogno di spezzare l'accerchiamento russo. La Cina vive nell'incubo dell'invasione del «barbaro dal Nord». Gli scavi dei rifugi antiatomici a Pechino non si sono mai interrotti; ad Hangchow l'esercito accumula viveri e munizioni nelle caverne sotto le colline; abbiamo visto il porto dì Shanghai dissemi- nato di posamine e incrociatori. Abbandonata la xenofobia, gli eredi di Mao Tse-tung pubblicano continuamente sui giornali le fotografie che li ritraggono con gli stranieri; e distribuiscono in tutto il mondo quelle in cui siedono sui cannoni tedeschi o nelle banche inglesi. Gli incidenti di frontiera del 9 maggio, in cui soldati sovietici hanno ucciso civili cinesi disarmati, sono stati considerati una provocazione. «I/Urss ha 100 mila uomini solo nella Mongolia» ci hanno detto al ministero degli Esteri «e 600 mila nell'Europa orientale. Essa nutre mire espansionistiche sia nei nostri che nei vostri confronti. Perciò dobbiamo affrontarla decisamente insieme». Hanno aggiunto: «Marx ha ammesso che l'orso bianco ci ha sottratto un territorio vasto due volte la Francia, ma Mosca rifiuta questa colpa storica». Con la Westpolitik, la Cina ha altresì rovesciato le sue alleanze nell'Est europeo. E' ai limiti della rottura con l'Albania, che l'ha accusata di «opportunismo antimarxista» e di «amoreggiamento coi regimi reazionari», mentre fioriscono i rapporti con la Jugoslavia, dipinta un tempo quale «culla dei revisionisti», e con la Romania, bene accetta per la sua indipendenza dalla Russia. In un lungo viaggio che lo porterà a Bruxelles, il presidente Hua s'accinge a contraccambiare le fresche visite di Tito e di Ceausescu, ignorando invece la polemica Tirana. In base al principio «i nemici dei nostri nemici sono nostri amici», egli propone un fronte elastico, quasi dall'interno, contro il Patto di Varsavia. E allude esplicitamente a un «modello slavo» da seguire, anche nell'economia. Usciti dall'isolamento della «grande rivoluzione proletaria culturale», i cinesi pensano di basarsi sulla Cee e sui Paesi socialisti «non filosovietici» per allargare il confronto con l'Urss a tutto il globo. Conferiscono nuova urgenza alle loro iniziative il dissidio col Vietnam, il suo ingresso nel Comecon, l'area economica di Mosca, il conflitto da esso provocato col Cambogia, e la sua dominazione sullo sperduto Laos. Dietro ciascun evento, scorgono le oscure manovre del «barbaro dal Nord». «Per due o tre lustri» mi hanno detto al ministero degli Esteri «abbiamo aiutato Hanoi in tutti i modi, regalandogli armi, medicinali, viveri, vestiti. Abbiamo speso 10-12 miliardi di dollari, senza chiedere mai niente in cambio. Ma oggi Hanoi scaccia i cinesi dal suo territorio e ammassa truppe alle frontiere. Medita di porsi a capo di una Federazione d'Indocina, e tenta di piegare chi gli resiste con la guerra». Il ministero degli Esteri giudica ciò incomprensibile, «perché Hanoi ha un unico bisogno, ricostruirsi economicamente» e accusa l'Urss di «spingere» per installare nel Vietnam i suoi missili e aerei. Sulle stesse linee della Westpolitik, Pechino sviluppa così la sua Ostpolitik. Davanti all'ostilità di certi «fratelli comunisti in Asia», sospende gli aiuti e minaccia la rottura dei rapporti diplomatici, mentre s'apre al sistema difensivo delle nazioni filoamericane, specialmente la Thailandia. Fa eccezione soltanto la Corea del Nord, a cui vende il proprio petrolio a metà prezzo dei sovietici (5 dollari al barile contro 10-11), e che attira gradualmente nella sua sfera d'influenza. Cresce sempre di più il contributo del Giappone, altro partner necessario alle «quattro moderniz¬ zgscsurnlK zazioni»: nelle scuole, l'insegnamento del giapponese ha soppiantato quello del francese, e le grosse città industriali pullulano d'aggressivi uominwd'affari nipponici. Come su di una scacchiera, a ogni mossa sovietica se ne contrappone un'altra. Il « golpe » pro-Afosca nell'Afghanistan, ad esempio, è bilanciato dall'inaugurazione della strada carrozzabile del Karakorum, lunga 800 km, che congiunge il Sinkiang a Islamabad, la capitale pakistana, e che riveste un'enorme importanza strategica. E il progetto russo di un «patto di sicurezza asiatico» trova una risposta nella mobilitazione di tutti i cinesi d'oltremare, alla moda d'Israele. La Westpolitik porta la Cina e taluni Paesi della Cee ad agire a fianco a fianco in Africa. Il ministro degli Esteri Huang Hua denuncia il «tentativo d'eversione» dello Zaire a opera dei ribelli katanghesi, e invia istruttori della marina militare a Mobutu. Riceve a Pechino il presidente della Somalia Barre, attaccando Cuba, che lo combatte, come «il braccio armato dellTJrss». Costruisce tra la Tanzania e lo Zambia una ferrovia di 2000 km, impiegandovi gratis per anni 15 mila operai cinesi. L'ultima frontiera, per ora invalicabile, è Taiwan. Il presidente Hua Kuo-feng ha definito il suo recente incontro col consigliere della Casa Bianca Zbigniew Brzezinski «positivo sia per noi sia per l'America». Ma la formalizzazione del rapporto e quindi la messa in atto della «comunanza globale d'interessi» sono state rimandate se non al 1980 all'anno prossimo. Temendo un abbandono americano, nonostante le numerose garanzie, Taiwan rafforza le difese, mentre Pechino continua a parlare di «liberazione». L'isola è anche la causa della chiusura al Vaticano. Scomparse le guardie rosse, le Chiese cattoliche in Cina si sono riaperte ai fedeli; ma le 100 diocesi circa non terranno i contatti con Roma finché «non ripudierà il Kuomintang». Nella Westpolitik, Hua e il vicepresidente Teng Hsiao-ping hanno l'appoggio dell'unico altro centro di potere: le forze armate. Dopo i sussulti della «rivoluzione culturale», la disciplina è tornata nell'esercito. A settembre, riappariranno i gradi, allora aboliti (l'unico modo di distinguere gli ufficiali dai soldati è dal numero delle tasche della divisa, 4 anziché 2). Prendendo il sopravvento sull'ideologia, il patriottismo ha restituito ai militari la dignità offesa dal «tradimento» di Lin Piao, il più celebre di loro. li ministero degli Esteri ammonisce a non credere a una distensione troppo rapida tra i cinesi e l'Occidente. Restano ingenti le difficoltà da superare, interne ed esterne, ed è eccessivo il dislivello tra una società e l'altra. Ma ferma è la convinzione nella validità della «teoria dei tre mondi», quello delle superpotenze, quello dei Paesi industrializzati, quello delle nazioni in via di sviluppo. E questa teoria vuole che il secondo (la Cee) e terzo mondo (la Cina) siano legati nella resistenza al primo (il bipolarismo Usa-Urss), e destinati quindi «a percorrere molto cammino insieme». Soprattutto, la Westpolitik cinese non poggia soltanto sulla piattaforma negativa del contenimento di un comune nemico. Essa è la condizione sine qua non della seconda lunga marcia, la conquista del 2000 cui ambiscono Hua e Teng. Dall'apertura non s'attendono solo cose materiali, ma anche know how, collaborazione, e quell'afflato culturale che giudicheranno compatibile col socialismo. Può darsi che il grande disegno della nuova leadership non si concreti mai, o che fallisca in parte: la partita è all'inizio, ed è possibile qualsiasi risultato. Ma lo sforzo e l'impegno sono fuori discussione. In quest'ultimo quarto di secolo, la Cina sarà un'autentica protagonista della nostra storia, con cui verremo chiamati tutti a fare i conti. Ennio Carette angchow. In una fabbrica di seta, operaie, con un istruttore, s'addestrano ai tiri di precisione (Foto G. Dal Monte) 99