Il giudice sciopera

Il giudice sciopera Dov'è la missione? Il giudice sciopera Malgrado ogni incitamento, malgrado il palese dissenso della opinione pubblica, i magistrati hanno deciso lo sciopero. Non sto a ripetere ciò che scrissi or non è molto. Non mi arrogo mai di sostituirmi ai morti e di scrivere: «Se il tale fosse vivo, cosa direbbe...», ma penso all'indimenticabile Piero Calamandrei, a tutti gli amici del suo gruppo che nel '45-'46, ingiustamente severi per tutto quanto faceva capo al potere esecutivo, si sentivano rassicurati dovunque al funzionario veniva sostituito un giudice; penso ai magistrati che conobbi, dagl'illustri D'Amelio, Venzi, Alberici, Piola-Caselli, fino ai modesti pretori, che non si amareggiavano per mettere i capelli bianchi restando in quel modesto ufficio e con quel modesto stipendio, ma erano orgogliosi della loro missione, consci del bene che potevano fare conciliando ed amministrando la giustizia, bene tanto più intenso quanto più ristretto era il loro mandamento; ricordo i molti per cui è emesso mandato di cattura e che poi dopo pochi giorni sono rimessi in libertà per mancanza d'indizi a loro carico, e che vedranno moltiplicarsi nel ricordo quei giorni di detenzione così amari; penso ai tanti contendenti civili che attendono con impazienza di conoscere la decisione di una causa, già discussa, già decisa perché è stata tenuta la camera di consiglio, ma la decisione resta ignorata fino al deposito della sentenza; ed altresì ai processi che già in tempo normale vanno cosi a lungo. I magistrati parlano di promesse dei guardasigilli non mantenute. Nella Costituzione che vorrei, sarebbe inibito ai ministri di fare promesse, potrebbero solo dire ciò che dicono i genitori ai figli nelle famiglie dove si vive a stecchetto: — se potremo, ti contenteremo —; ma in questa Italia cosi povera, così indebitata, che vive alla giornata, quale cittadino può non conoscere che quel «se potremo» è implicito in ogni promessa? Soprattutto nelle grandi città il magistrato lavora nelle peggiori condizioni. I vecchi avvocati temono sempre che le gambe ad un certo momento crollino, in quelle udienze istruttorie civili, dove in una camera esposta d'estate al sole, d'inverno al soprariscaldamento, sono tre tavoli di giudice, e sessanta, settanta, procuratori ed avvocati fanno ressa, come nei tempi di penuria ai magazzini alimentari, ciascuno agitando il suo fascicolo, taluno per chiedere soltanto un rinvio, altri per domandare al giudice di ascoltare i testimoni convocati e che minacciano di andarsene dopo due ore di attesa (c'è, è vero, tra avvocati amici l'espediente illegale di sentir loro i testimoni e di stendere il verbale con le risposte, presentandolo poi al giudice con i testi in gruppo che prestano il giuramento di rito di dire la verità, già verbalizzata), altri per domandare che la causa passi finalmente in decisione. So dai colleghi penalisti quelle che sono le loro croci. Conosco tutto quanto occorrerebbe per sollevare un po' magistrati e cancellieri: locali, personale, abili e sveltissimi dattilografi, ed anzitutto una legislazione che facesse pagare la litigiosità, che distogliesse dall'adire il giudice per quisquilie, ed un popolo che ricorresse più largamente agli arbitrati irrituali, oggi praticati solo, per ragioni fiscali, dai grossi finanzieri ed industriali. So tutto questo; so che si chiede ai magistrati di dare più che non dia la normale degl'impiegati pubblici, degli appartenenti alle forze armate. Ma questo non attenua il mio dolore per la decisione; perché mostra due cose entrambe amare: che ormai non c'è più ceto che avendo in mano l'arma dello sciopero (in sé rottura di un contratto o disobbedienza ad una legge) non ritengano di non doverlo adoperare (e sono convinto che la Costituzione lo ammette solo nella sua forma storica, di fronte all'imprenditore privato; così come sono convinto che quelle condizioni ideali per rendere bene giustizia sono irrealizzabili nella Italia pavera e scompaginata d'oggi); che non c'è più ceto che senta che la propria nobiltà consiste nel sapersi sacrificare per il bene della collettività, la propria superiorità nel non guardare quel che fanno gli altri, così come in tempo di guerra c'erano dei giovani che a chi ricordava loro quanti e quanti fossero gl'imboscati, quante vie si dessero per restare in un ufficio, per non rischiare la propria pelle, rispondevano: — E' precisamente per non rassomigliare a quelli che voglio andare al fronte —. A. C. Jemolo

Persone citate: A. C. Jemolo, Alberici, D'amelio, Piero Calamandrei, Piola-caselli, Venzi

Luoghi citati: Italia