Valori tradizionali e forme sconcertanti di Angelo Dragone

Valori tradizionali e forme sconcertanti A VENEZIA DOMANI (TRA IMMANCABILI POLEMICHE) LA "BIENNALE '78„ Valori tradizionali e forme sconcertanti DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE VENEZIA — Dopo tre giorni dì «vernice», domani si apre al pubblico la «Biennale 1978». Sfrondato il vecchio nome di «Biennale internazionale d'arte» si è rinunciato a distinguere la nuova edizione con l'ordinale che le sarebbe toccato (è la 38" dal 1895). Tuttavia, dopo il lungo periodo di contestazione, appare evidente un tentativo di riallacciarsi alla tradizione. Si nota un ritorno nei luoghi deputati: i Giardini di Castello (la cui riapertura e ripristino, dopo anni di abbandono, son costati un miliardo e duecento milioni), anche se non si è rinunciato ad altri spazi espositivi. A parte l'Ala Napoleonica di piazza San Marco, dove questa Biennale s'annuncia con tre retrospettive a ricordo di altrettanti artisti scomparsi nell'ultimo biennio — Claudio Cintoli (1935-78J, Domenico Gnoli (1933-76), Ketty La Rocca (1938-76) —, i Magazzini del sale, alle Zattere, ospitano alcune sezioni in modo specifico dedicate alla architettura e alla fotografia. Non sappiamo invece se tra i recuperi del passato sarà prossimo il ritorno ai premi auspicato da Ripa di Meana. Ci sono altri, ben più validi modi di affermare «la responsabilità critica», cominciando ad esempio dalla selezione degli inviti tanto spesso così discussi e discutibili. E, se non bastasse, sì spinga pure il senso di responsabilità critica fino ad entrare nel merito non delle scelte operative degli artisti, naturalmente, ma della rispondenza del loro lavoro al disegno critico delle mostre. In questo caso, forse, la Biennale '78 non avrebbe accolto il visitatore col muro del quarantunenne Mauro Staccioli (un volterrano invitato da Crispolti all'insegna della «natura praticata») che con intento provocatorio ha eretto questa sua barriera larga 8 metri alta altrettanti e profonda un metro e venti, sotto il viale principale sbarrandone quasi l'accesso. La monta Dietro quel muro bisogna superare lo sconcerto della «monta» di un toro (vero) e di una vacca (falsa) ideata da Antonio Paradiso (altro invito crispoltiano) che forse intende rimescolare un mito antico con quello attuale delle nostre «arance meccaniche». Ma, guadagnate le prime sale del padiglione centrale, questa Biennale rivelerà al visitatore il suo ritorno a Picasso e a Braque e con loro a molti altri famosi maestri. Sono 123 in tutto, tra defunti e viventi, giovani e meno giovani, consacrati ormai dalla critica e dal mercato del dopoguerra. Ad accomunarli è una mostra poco storica e alquanto discussa che offre tuttavia una carrellata dell'arte europea dal 1912 ad oggi. Con qualche nome soltanto si può passare da Kan- dinskij e Mondrian a Griffa, da de Chirico a Schwitters, da Dochamp a Max Ernst a Savinio, con Severìni, Otto Dìx, Fautrler, Bacon, Toomby, da Boccioni e Balla (con un'aura freschissima) a Magritte, da Burri a Isgrò e Paolini, da Pollock con Fontana a Klein, con Merz, Anselmo, Zorio, Boetti e Pistoletto. La storia, insomma, di quasi settant'anni d'arte. Basta però tutto questo a segnare la salvezza della nuova Biennale? In verità «nomi» e dipinti anche famosi — la scultura vi è quasi latitante — non sono mai bastati a fare una mostra, né a scrìvere una storia come questa che s'immagina curiosamente stretta pressoché dallo stesso tema che, diciotto anni fa (1960), poteva far da insegna ad una esposizione allestita proprio a Venezia, in Palazzo Grassi, per scandagliare con ben maggiore tempestività le radici e i modi nuovi della ricerca artistica nella seconda metà del secolo. «Una mostra dalla natura all'arte — disse allora Paolo Marinotti nell'introdurre il catalogo dell'esposizione — implica ovviamente il discorso sulle cose. Ma questa che noi presentiamo non vuol essere una mostra delle cose o di cose, così come non vuol nemmeno essere una mostra d'arte», paghi dì ammonire, come faceva già attraverso le opere di Dubuffet. Fontana, Enzo Mari e di altri noli artisti di continenti diversi: «O si costruisce con l'uomo e con la natura, o si distrugge». Il tema della Biennale — Dalla natura all'arte, dall'arte alla natura — sembra riprendere quello del '60 quasi completandolo. Ma sottintende la possibilità di una inversione di tendenza che in realtà non esiste, se non nell'equivoco di certe posizioni attardate — come quelle di Notori, Pulga, Ida Barbarigo, tipico riflesso di un Bacon alla Sughi — nella sottosezione italiana ordinata da Carluccio. Natura e arte: scrisse Alain che «vi sono opere e aspetti della natura che si rivelano a noi con l'evidenza di un messaggio; essi stessi sono arte, quindi poesia». Questo concetto ha guidato artisti, soprattutto nordici, presentì in questa rassegna, ma col gusto della mistificazione più. palese che traduce l'inventiva su un piano di una ricostruzione artigianale qualificata dal suo artificio. Al polo opposto si pone l'opera intesa come manifestazione di una ricerca legata piuttosto alla temperie storica, oggi caratterizzata in maniera preminente dalle applicazioni delle piti sofisticate tecnologie; una posizione cui sì riconducono molto bene le realizzazioni del torinese Piero Fogliati esposte per motivi logistici nel padiglione non utilizzato dall'Ungheria (polemicamente assente con l'Urss, la Polonia e la Cecoslovacchia a causa della precedente Biennale sul «dissenso» d'oltre Cortina). Fogliati, bene individuato da Lara Vinca Masini nell'ambito del settore da lei curato con l'abituale rigore critico e filologico, ha messo a punto una serie di geniali macchine per la produzione di suoni e rumori e, più di recente, di apprezzate strut¬ ture luminose che tengono conto del comportamento dinamico della percezione visiva. Le pecore Nel settore della Masini si trova magari anche l'eccesso di ironia di un Mochetti che ha risolto il «tema» incollando semplicemente un augurale quadrifoglio sulla vasta parete ignuda. Ma sono proprio le ricerche di questo gruppo di artisti, da Mari a Masi, da Chiari a Mauri e a Ontani, a fornire la direttrice lungo la quale andava sviluppata la linea portante dell'intera manifestazione, linea che è inutile cercare altrove. Ventotto sono i paesi partecipanti che si cimentano nel tematico incrociarsi dell'esperienza artistica con la realtà. Israele l'ha interpretato con una sorta di parabola del «buon scultore». Protagonista ne è Menashe Kadishman, 46 anni, un ornane non alto, fianchi prepotenti, che se ne sta in ciabatte e calzoncini corti nel suo padiglione, occhi piccoli e vivaci in un volto quasi nascosto dai capelli crespi che continuano nella barba arrossata sale e pepe. A chi lo interroga non esita a raccontare: «Ero pastore in un kibbutz nella valle di Izreèl. Un giorno ho smesso dì fare il pastore per diventare scultore. Ma già allora pen¬ savo di tornare alle pecore e vi sono tornato». «Non sono belle le mie pecore?», domanda accarezzandole una dopo l'altra mentre le spinge nel loro recinto di legno, ciascuna con una grande macchia blu dipinta in fondo al dorso come contr<issegno familiare in uso tra i pastori del Medio Oriente. Qualcuno vi ha voluto vedere l'immagine dell'arte che ritorna alla natura, come la pecora all'ovile. Ma vi è chi ricorda proprio a Venezia i cavalli di Kounellis, e sembrano tempi già lontani e ognuno sa che sono esperienze irripetìbili. Non ci si attenda novità da questa Biennale che ha tuttavia anche tra ì padiglioni stranieri qualcosa d'interessante da mostrare. L'Inghilterra con Mark Bayle, che nella minuziosa fedeltà alla natura piega i prodotti della tecnologìa e dell'industria contempr "anea sino a mimare lo «strappo» di tutta una serie di terreni resi nella loro strutturale fisicità geologica, così come ha fatto talora con la propria pelle. L'Austria con la personale di Arnulf Rainer, che si è votato al linguaggio del proprio corpo. Gli Stati Uniti, infine, che hanno affidato il tema ad un pittore dell'esperienza di Richard Diebenkorn con ascendenze tra CI. Stili e de Kooning e a un fotografo della classe di Henry Callahan, il cui mondo dominato dalla presenza della natura è aperto però non meno alla cultura figurativa e all'intuizione esistenziale che ne caratterizza la personalità. Angelo Dragone L'austrìaco Arnulf Rainer è presente con « Body-poses »