Cavolo, che parolacce!

Cavolo, che parolacce! Carlo Castellaneta e il linguaggio giovane Cavolo, che parolacce! Simile a una frana, che inizia in maniera impercettibile fino a trascinare e a travolgere ogni resistenza, la voga del parlar sboccato ha investito ogni settore della vita italiana. Non c'è famiglia, ufficio, locale pubblico, libro o spettacolo che sia immune dalle parolacce. Basta salire su un autobus all'ora in cui rincasano gli studenti, per sentir volare a destra e a manca il nome dei genitali maschili o i verbi della evacuazione corporale, coniugati in tutte le salse. L'impressione, più che di fastidio, ormai è di noia. Questi giovani che credono di violare un tabù nominando ad alta voce ciò che noi sussurravamo, forse non si rendono conto che, passato lo choc, anche per i padri il loro linguaggio è semplicemente stantio, ripetitivo, svuotato d'ogni forza d'urto. Quando eravamo studenti noi il linguaggio scurrile veniva usato soltanto tra maschi, era una specie di robusto gergo militaresco (infatti lo chiamavano « da caserma ») che in presenza di un genitore ci sarebbe costato come minimo un ceffone. Oggi mia figlia dodicenne mi raccomanda spesso di « non romperle le palle », sicura di farmi piacere rinunciando all'altro termine maschile plurale, che i suoi compagni di scuola masticano come la gomma, con la stessa disinvoltura. Insomma si esagerava allora (quando era una arditezza, scrivendo, indicare il sedere con una « c » e tre puntini) e si esagera oggi nel trasferire al parlato corrente espressioni pittoresche e sanguigne fatte per determinati momenti, e non per la vita di tutti i giorni. Forse bisognava spiegare a questi nostri ragazzi che, se ci si abitua a condire i cibi di pepe e di zenzero, si finisce per non sentire più gli altri sapori. E infatti il guaio maggiore del parlar sboccato è, al pari della droga, l'assuefazione. Occorrerebbero vocaboli sempre più forti, sempre più violenti, sempre più volgari. Ma dove trovarli? Il mercato ne fornisce uno ogni decennio, perché anche la parolaccia ha una genesi molto lenta. Così il turpiloquio somiglia a uno stanco rosario, a un'inerte cantilena recitata da monaci senza fede. Oggi una nuova « Semantica dell'Eufemismo » (fu un testo celebre anni fa tra i cultori di linguistica) non avrebbe di che occuparsi. L'eufemismo è morto e sotterrato. A dire « crincio » o « cavolo » sono rimaste le vecchie zie. Ma perché le parolacce hanno tanta fortuna, al punto da contagiare grandi e piccini? Dicono: esigenza di sincerità. E va bene. Dicono: rivolta contro i padri. E va bene, ma come si fa a non accorgersi che, come tutte le merci di scambio, anche la parolaccia se è inflazionata non vale più? Valevano ai miei tempi di ragazzo, quando le scrivevamo negli ascensori, e ci pare¬ va di mettere delle bombe. Ora quegli stessi termini vengono pronunciati come interlocuzioni durante le telefonate dei nostri figli, quasi privi però del loro valore dirompente, ormai ridotti a un codice di fonemi. E se risultano così fastidiosi alle nostre orecchie di adulti è perché quelle parole conservano invece per noi ancora qualche significato, educati come siamo stati al sapore proibito di quei bisillabi. E' una moda, naturalmente, e passerà come tutte le mode, e infine ritornerà come tutti i revivals. Ma intanto possiamo coglierne qualche carattere. Ad esempio la compiacenza dispregiativa che anima il turpiloquio. Se fare l'amore è diventato « scopare » (neologismo da classificare come ricorrente anche tra signore di borghesia medio-alta, che l'hanno imparato dai figli) questo vuol dire che i ragazzi dei giorni nostri non hanno una grande opinione della faccenda. Obietterà qualcuno: perché sono più maturi, sono finalmente liberati, non hanno malizie né il gusto torbido dei doppi sensi che distingueva la nostra generazione. Io credo invece che il loro bisogno di comunicare attraverso questo linguaggio non sia una prova di forza ma di debolezza, un modo per farsi scudo, mediante una parola « sporca », della fragilità dei propri sentimenti, della loro indifesa innocenza. Quindi un atteggiamento di difesa, non di attacco, come essi credono. Alla diffusione di tale voga ha contribuito più di tutti il cinema, specialmente americano, con il suo slang sboccato e immaginifico. Persino tradotto in italiano, anche con qualche goffa compiacenza di romanesco, il vocabolario da bassifondi newyorkesi ha suggestioni linguistiche non indifferenti. « Bulli e pupe » fece epoca in proposito. E più recentemente « Conoscenza carnale » e i film di Woody Alien. Sicché i giovani ci vanno come a una scuola di lingua, sbellicandosi a certi termini inusitati che tuttavia rientrano in quel discorso grottesco sul sesso, in quella sottolineatura degli atti corporali, che è così frequente nella loro fraseologia. Anche questo mi sembra, più che una conquista o una liberazione, un modo di esorcizzare il sesso (eterna ossessione di tutti gli adolescenti) attraverso il ridicolo e la denigrazione. Peccato che poi, attingendo a sproposito a questo tipo di glossario, essi rischino di trovarsene sprovvisti quando serve. Un'arma spuntata a furia di usarla a vuoto. Ma poi chissà, tutto passa e cambia. Non è detto che magari, tra vent'anni, i figli dei nostri ventenni non reagiscano a questo conformismo che i loro padri credevano anticonformista. E che anzi non riscoprano il piacere (a noi così ben noto) di eccitarsi ricercando, nel dizionario, le parole dell'atto sessuale. Ve Io ricordate? Lo si faceva tra amici, sottovoce, quasi di nascosto. — Guardiamo se c'è anche... Carlo Castellaneta

Persone citate: Carlo Castellaneta, Woody Alien