Nelle crepe del pensiero occhieggia la verità

Nelle crepe del pensiero occhieggia la verità DIARIO DAL MANICOMIO Nelle crepe del pensiero occhieggia la verità Chiamato per una visita cardiologica nel manicomio, appena vi arrivo in macchina, lo vedo profilarsi alla mia sinistra col suo grande caseggiato rettangolare in passato adibito a monastero. Sulla destra c'è un boschetto di pini dalla chioma mozza che fanno ombre seghettate o filiformi che si addensano nel centro della pineta. Giù, sotto la scarpata, si vede un piccolo scalo ferroviario con pietre tinte in rosso. Veramente all'albero del pino non sono abituato, cioè non esistono nella mia memoria di isolano. Ero abituato all'ulivo, al mandorlo, al carrubo, alle siepi solitarie di rose canine, al melocotogno. Cioè ad alberi fruttiferi dal legno particolarmente odoroso. Appena scendo dalla macchina, dalle inferriate delle finestre mi arriva un gridìo ora acuto, ora sommesso, ora dolente. Sono loro, i ricoverati, lo so. Quei suoni si moltiplicano nel rameggiare dei pini. Mi trovo 11 per Iolanda, una schizofrenica di circa novant'anni che da un decennio all'altro della sua vita è passata da una segregazione manicomiale all'altra. Affetta ormai da insufficienza cardiorespiratoria va incontro ad episodi di edema polmonare. Quando supera l'attacco, parla a se stessa, in un monologo cantilenato. E quale migliore conforto che parlare con noi stessi? Nel suo caso si tratta di una stereotipia del pensiero, di un affondare in un primitivo nucleo di peccato originario. Infatti dice continuamente: «Non voglio più nascere. Non lo faccio più. Non voglio più nascere. Non lo faccio più». Il pensiero le si è come accartocciato attorno ad un bozzolo d'un rito espiatorio, o, forse dietro un larvale desiderio di perdersi nel nulla, lasciando per sempre la greve corporeità. Intanto, mentre arzigogolo su questo, alla mia sinistra, nella largura che s'apre sopra un muretto divisorio, alcuni ragazzi giocano inseguendosi, mentre un gallo canta impettito alla lingua di sole che si annuvola per un cirro passeggero nel cielo. Mi avvio. Il portiere, seduto dietro il tavolo, mi saluta e fa squillare il telefono per dire a suora Teresina che io sono arrivato. Nel cortile del manicomio ci sono due file di pini (ancora pini!) e in fondo delle palme simmetricamente disposte. Crescono poco, sono quasi nane, per la mancanza di venti caldi che animano le foglie, i canali linfatici e i nastriformi dattolieri. A passi svelti mi viene incontro il malato Strino, mio amico, dagli occhi lucidi e dalla pronta parlantina. In quel momento mi vien voglia di riflettere sul rapporto che c'è tra le esatte geometrie delle foglie aghiformi dei pini e il pensiero degli schizofrenici. Oh, dio, un rapporto esiste! Lo debbo pur districare. Per esempio, i pini creano delle relazioni spaziali attraverso le quali posso indicare a me, o a chi me lo chiede, un sud, un nord, un ovest. Il pensiero si appiglia lo stesso allo spazio, non si estrinseca se non costruisce relazioni proiettive. Gli aghi resiniformi degli alberi di pino riproducono in una precisa congruenza dei punti attorno ad un tronco, creando cosi una stereotipia simile a quella del pensiero di Iolanda. — O dottore, un'altra volta qua per Iolanda? — mi chiede Strino con la sigaretta tra le mani. — Sì, amico Strino. — Non sapete che è stata Iolanda ad insegnarmi a parlare con i morti? — Da quanto tempo? — Non so se da cento, o da settecento anni. Voi sapete che io vivo da lunghissimo tempo. Così dicendomi, mi invita a passeggiare con lui nel cortile. Io gli domando all'improvviso: «Strino, c'è rapporto tra gli alberi e il nostro pensiero?». — Volete dire con l'anima di un albero, con ciò che fu un albero. Non sapete che anche gli alberi muoiono? Gli altri a queste cose non pensano. Conoscono soltanto politica, politica! Che ridere! E, girando attorno ad una palma nana, con un sorriso mi dice: «Io so che un albero muore, mio padre muore e quindi un albero è mio padre». Già, penso, i dissociati delle volte ragionano per sillogismi in cui alla identità dei soggetti rappresentatisi sostituiscono una identità dei predicati; siamo cioè, come vedremo meglio lungo questo diario, ad un pensiero primigenio. E rieccomi (considero) un'altra volta con la trama puntiforme dei pini, con i loro rami verdicci che certamente in filiformi proiezioni producono minimi atcgnbvcsnncgrcdddgcd atti coscienziali che fanno par- te del vasto universo pensante sche è la noosfera. — Non sapete allora che gli alberi muoiono? — continuava Strino, tenendomi sotto braccio —. A loro la morte viene dalle radici: è un rodio, credetemi. Io me ne accorgo se poggio adattatamente le mani sui tronchi. Altri ricoverati mi vengono incontro tra cui il siciliano Gemebondo (come lui si chiama da se stesso) Rodriguez che, togliendosi il berretto, con un inchino e un dolcissimo sorriso mi dice: «O dottore, avete inoltrato la mia domanda al papa? Sapete se ha deciso di farmi beatificare?». Insomma.mi vengo a trovare tra due fuochi pensanti: uno che con una terminologia ripetitoria si abbarbica alla morte, l'altro che lagnosamente segue un modello paranoico di grandezza. Il nostro pensiero, intanto mi continuo a dire in segreto, è una sfera dalle mille braccia, una catena associata di idee-evento che per strutture simboliche geometrizzano il mondo, come attorno a me fanno in mollicce protuberanze gli alberi. Il pensiero, allora, per accumuli, inviluppi, gorghi e risgorghi può essere considerato come una energia cinetica che ruota in veri ammassi globulari per ogni dove. — Il papa, mi dice Gemebondo, è stato avvertito in via ufficiosa da mio cugino il cardinale Universo, ma ci vuole la solita spinta per farmi diventare beato. Chi meglio di voi, dottore? per giunta, siciliano come me? — E lascia il dottore, si intromette Strino, non vedi in quali ragionamenti stiamo ruotando? Deve pur ruotare questa noosfera, penso da parte mia, con flussi e riflussi in linee centrifughe di espansione. — Si espande la morte, mi spiega Strino, nei canalicoli delle piante; è come un vento sotterraneo. Ed io, sapete, di morti me ne intendo. Ci sono quelli violetti, quelli rossi, i giallini, e quelli (i più birbanti) che se toccati si smarriscono nell'aria. — Il cardinale Universo, mi dice dall'altra parte Gemebondo Rodriguez, è un brav'uomo, berretta color cresta di gallo (chicchirichì! chicchirichì!), i soliti libri tra le ma- pccgsceR ni, ma sino ad oggi non rie sce a piegare la volontà del papa. Un tremare nuvoloso di luce ci investe dall'alto investendo e finestre con le inferriate da cui ci guardano i malati più gravi. Di colpo capisco che la noosfera, o la nube del pensiero, in certi punti — che sono uomini, piante e sassi — subisce una caduta. — Di cadute di alberi me ne intendo, caro dottore, fa Strino in curiosa sintonia con i miei pensieri; prima è toccato un ramo dal veleno mortuario: trac! E' caduto. Poi, un altro: tric! E' caduto... Stimolato indirettamente dalla presenza di Strino e di Gemebondo, mi dico che la pura energia del pensiero universale, accentuando la sua turbolenza, si invortica, come dire?, in buche. — Il buco, si intromette Rodriguez anche lui stranamente pronto a captare certi miei tribolìi mentali, ce l'hanno in testa i cardinali che non vogliono riconoscere quanto io abbia penato per giungere a questa condizione. Ecco, perché mi ostacolano. Le buche, continuo a dirmi imperterrito, sono le menti degli schizofrenici. Cioè, la sfera pensante, per mantenere il proprio equilibrio, si deve imbucare in questi malati, e, fuori dagli uomini, nei punti di fragile struttura degli animali, dei vegetali, delle pietre. E' come un ritornare alla coscienza primitiva e universale che si addenso, e si sprigiona in un secondo momento da quanto è discontinuo: cioè, pensavo, dobbiamo ricercare l'origine prima delle cose negli sprofondi, nelle crepe sismiche, negli ombelichi stellari, nella mente dei dissociati. La quale non corrisponde ad un campo vitale disorganizzato, ma ad una precisa combinazione di elementi ordinanti. — O dottore, gridò da una finestra suor Spirilattina, distriticatevi da Strino e da Gemebondo e dai vostri stessi pensieri, e venite a visitare Iolanda. In quel momento un filo di sole, superate le nuvole e una grondaia del cortile, battendo sui miei occhiali fece come un'aureola attorno alla testa di Rodriguez. Giuseppe Bonaviri