Smettiamola con il mito agreste

Smettiamola con il mito agreste COME LA CAMPAGNA OGGI VIENE "IDEALIZZATA Smettiamola con il mito agreste Aveva cominciato il maoismo, anni fa, a riproporre un antagonismo che credevamo superato: quello tra città e campagna. Ora un film e un libro tornano a «rilanciare» il mondo contadino. 11 film è quello di Olmi (L'albero degli zoccoli) vincitore a Cannes, il libro è del vicentino Camon (Un altare per la madre) che molto probabilmente vincerà il Premio Strega nel prossimo luglio. Ma da dove viene questo revival? E perché tanto successo per due opere che si pongono, entrambe, deliberatamente fuori dalla Storia? Cominciamo dal revival. Esso mi pare piuttosto una continuazione del gusto «rétro» di Pasolini, cioè dello stesso equivoco di credere che la civiltà contadina sia, in sé e per sé, meglio del mondo industriale. Un frutto sano, depositario di grandi valori, a fronte del frutto bacato e marcio delle metropoli. Visione cattolica per eccellenza, e non a caso gli autori delle opere citate sono, appunto, due cattolici. Sappiamo che la linea del progresso non è mai una linea diritta, ma che procede a sbalzi, a spezzature. Celebrare il buon tempo andato (ma in questo caso ciò che è morto) è un'operazione che si ripete nel tempo con maggiore o minor fortuna. Dunque, se ha fortuna in questo momento ci devono essere delle ragioni. E quali? Intanto direi che la ragione principale è la nostalgia, e con la nostalgia si ha sempre successo, quando risveglia dentro di noi aneliti che, dalle «Veglie di Neri» alle liriche di Scotellaro, credevamo sopiti o spenti. Ma c'è anche qualcosa d'altro, che riguarda il nostro oggi. Ed è che forse, nel gran turbinio di trasformazioni che stiamo vivendo, nella tabula rasa delle dottrine, delle credenze, dei valori morali, torna prepotente l'istinto ad ancorarci a qualcosa di fermo, di sicuro, a valori stabili e ancestrali. Ecco allora la campagna riproporsi come luogo immutabile, zona franca dove riprendere fiato, tra chicchiricchl e soavi scampanìi. Ci sorregge in ciò la presunzione che il mondo contadino sia davvero buono e leale, che i rapporti umani siano facili e distesi, che ogni spinta antagonistica si risolva in idillio. Nulla di più falso. In realtà (e basta leggere qualche inchiesta o documentarsi sul posto) la campagna ha perduto quasi dovunque quei connotati che potevano renderla desiderabile. Essa è percorsa da fremiti industriali (il problema della meccanizzazione anzitutto) e da voglie consumistiche. Ma i nostri autori la vagheggiano ancora ottocentesca, immune dalla competizione capitalistica che sarebbe tipica delle grandi città. Peccato che poi ci si scanni per un barile di vino o per una mucca al pascolo che ha sconfinato. Peccato che vi si pratichi ancora l'incesto, l'usura, la coltellata in osteria. Direte voi: sono forse meglio le bottiglie molotov? Non dico questo. Non mi sentirei di stabilire una graduatoria tra bottiglie molotov e bottiglie di barbera, cioè se sia meglio la città o la campagna, e persino il progetto maoista è rimasto sconfitto dai fatti. Ognuno nasce dove gli capita. Ma pretendere, come vuole la moda, che «contadino è bello» mi sembra un po' azzardato. Persino i negri d'America, che hanno creato una cultura sulla nostalgia dell'Africa e sulle «radici», mica si muovono da Harlem. Non gli passa neanche in mente di lasciare i loro slums per un tucul! E allora smettiamola con questo mito del mondo georgico. E' vero che ogni sabato lasciamo le nostre città per correre in campagna, ma ci resteremmo? E' vero che le nostre città sono inabitabili per disservizio e degradazione, che si respirano gas di scarico, eccetera. Ma è forse più sano il lezzo dei concimi chimici? Lo confesso: sono ignobilmente cittadino (dopo tre giorni immerso nel verde comincio a domandare se c'è un'edicola) ma questo è affar mio, una mia devianza. Vorrei solo contestare che la campagna sia la soluzione, soltanto perché la città ha dei difetti di crescita. Invece ogni tanto siamo sottoposti alla retorica contadina, al falso mito della spontaneità e del candore. — Ma vuoi mettere il paesano che ti saluta per strada? E' vero, fa piacere il buongiorno di uno sconosciuto incontrato su un sentiero. Ma prova a chiedergli cento lire in prestito, a quel brav'uomo... Personalmente, mi fa più orrore la grettezza contadina che la disperazione della metropoli. Molti intellettuali apocalittici sostengono che è stata la fabbrica a rovinare la campagna, a sottrarle le migliori energie, a impoverirne la cultura. Ma se quella cultura e quei valori fossero stati ancora e per davvero operanti, nessun bracciante si sarebbe mai trasformato in operaio del Nord, nessuno zappatore si sarebbe così facilmente arruolato nelle catene di montaggio. Certo, la nostalgia della terra come antidoto alla nevrosi e all'inquinamento è oggi più sentita che mai. Ma dobbiamo pur renderci conto che, insieme alla nevrosi, è la città che elabora i nuovi modelli, è qui che si fabbrica l'uomo del futuro, e non tra i pioppi e le abetaie. Del resto, dove sono nate le grandi rivoluzioni che hanno cambiato la faccia del mondo? A Parigi o nelle campagne della Vandea? A Pietrogrado o tra i servi della gleba? E l'unica rivoluzione contadina, quella cinese, non sta riscoprendo la fabbrica? E' vero invece che da sempre la campagna è il luogo storico delle controrivoluzioni, del conservatorismo, del bigottismo, nemica com'è del nuovo, da qualunque parte venga. Dunque tra il garage e la stalla, tra la sentina dei vizi e la noia, ognuno è libero di scegliere. Ma per carità non diciamo che la stalla e la noia erano la gioia di vivere. Anche perché non lo sono mai state. Carlo Castellaneta

Persone citate: Camon, Carlo Castellaneta, Olmi, Pasolini, Scotellaro

Luoghi citati: Africa, America, Cannes, Parigi, Pietrogrado