Dieci anni fa ad la morte di Quasimodo

Dieci anni fa ad la morte di Quasimodo RICORDANDO QUELLE ORE ANGOSCIOSE Dieci anni fa ad la morte di Quasimodo A goderci la brezza spirante dall'orizzonte verdeazzurro del golfo, celebrando il rito dell'aperitivo sulla terrazza panoramica dell'Hotel dei Cappuccini ad Amalfi, quella splendida mattina cel 14 giugno 1968 eravamo in quattro: con Salvatore Quasimodo, presidente della giuria incaricata di assegnare per la prima volta il premio di poesia «Amalfi», il poeta e critico napoletano Alberto Mario Monconi, lo scrittore del Gruppo 63 Adriano Spatola (tra parentesi, fratello dì chi scrive) — allora componente del gruppo redazionale della rivista «Uomini e Idee», organizzatrice del premio — e il sottoscritto, presente del tutto occasionalmente in qualità di coeditore di una delle «opere prime» in lizza. Di lì a poco, i primi, confusi sintomi del fulmineo malore destinato a stroncare il grande poeta, premio Nobel 1959 per la letteratura, avrebbero interrotto bruscamente la conversazione. Dieci anni dopo, appare non solo giusto, ma doveroso, ricordare quelle ore angosciose, pur nella consapevolezza di riassaporare così l'amarezza suscitata in alcuni di noi dalle circostanze di quella fine, sentimento che non trasparì in alcuno scritto, nei giorni successivi, per un'intuibile forma di omaggio, da parte di coloro che ne furono testimoni, al grande silenzio della morte. Amarezza profonda, leggibile — almeno per quanto mi riguarda — su due piani differenti: quello che potrei definire «degli affetti», ed è l'impronta, la ferita lasciata dal repentino tacersi, poche ore dopo averla conosciuta e apprezzata, d'una voce sorprendentemente (in quanto appartenente all'olimpo «sospetto» degli uomini entrati nella storia) amica e cordiale, commossa e arguta nel pacato divertissement di un'oretta di «pesca» nel gran mare dei ricordi, tanto tenera nel rievocare amicizie antiche quanto feroce nella battuta polemica: in una parola, una voce «umana»; e quello «sociale», con l'ennesima constatazione, attraverso la riprova di una morte forse non «inevitabile», delle eterne qualità negative di un Paese che, per favorire sfruttamento e speculazione, privilegia autostrade, cliniche e alberghi di lusso — tanto per far calzare l'esempio — alle strutture sanitarie. Gioverà a questo punto rilevare l'assenza, in una zona fittamente popolata come la costiera amalfitana affollata nei mesi estivi da centinaia di migliaia di turisti «stanziali» o di passaggio, di un ospedale, anche piccolo, attrezzato ed efficiente (dubito che la situazione sia mutata, dal '68 a oggi)? Un'assenza che rese davvero impossibile ogni tentativo di salvare la vita del poeta sessantasettenne — quanta tristezza nel ripensare all'unico rimedio a disposizione, in quegli attimi cruciali, del volonteroso medico condotto dottor Luca Iovine per fermare l'emorragia cerebra le, il salasso (un po' come voler fermare a sassate una carica di elefanti) —, ucciso, oltre che dal male implacabile, dalla disperata quanto vana corsa lungo infiniti tornanti della tortuosa statale per Napoli, agonizzante sul sedile posteriore di una vecchia «1500». E su quel sedile Salvatore Quasimodo era giunto malamente, in modo grottesco, trasportato a braccia su un materasso intriso del suo sangue lungo l'interminabile scalinata dardeggiata dal sole che conduce all'albergo («romanticamente» sospeso a picco sul mare), dopo che si era verificata l'impossibilità tecnica di far atterrare a distanza utile un elicottero o di far giungere in tempo un'ambulanza. Resta così il ricordo amaro di una morte impietosa, di un penoso delirio confortato dalla presenza dell'amico Piero Chiara e dal pianto sommesso dell'ultima, giovane compagna, Annamaria Angioletti, di una mano tremante che tracciava nell'aria incomprensibili segni, come volesse scrivere qualcosa, dell'ultimo istante di lucida consapevolezza: «Faccio la stessa fine di Birolli» (il pittore Renato Bi- rolli, grande amico di Quasimodo, morto improvvisamen te nel '59 per un attacco dello stesso male). E la coscienza, appena percepibile allora, molto più forte oggi, che quel giorno si era aggiunta un'altra piccola tessera al grande mosaico che dipinge l'assurdo ritratto — proprio non, beninteso, di un solo Paese, ma dell'intera società — di una civiltà incapace di darsi un volto umano. Una visione, forse, personale Fatto sta che sia Ungaretti sia Palazzeschi, chiamati l'anno successivo a presiedere lo stesso premio di poesia, declinarono gentilmente — si dice — l'invito. Maurizio Spatola

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