L'ultima gloria dei vecchi ascari di Francesco Fornari

L'ultima gloria dei vecchi ascari VISITA A MOGADISCIO DOPO IL BLITZ RUSSO-CUBANO L'ultima gloria dei vecchi ascari Durante la recente guerra delI'Ogaden i giornalisti stranieri andavano a interrogarli per avere informazioni sulla natura del terreno: insieme con descrizioni geografiche affioravano lontani ricordi di battaglie - Dopo la paura la comunità italiana ha ripreso la consueta vita: il lavoro nelle fattorie e gli incontri con i tecnici e i professori che hanno contratti in Somalia MOGADISCIO — Sdraiati davanti al cancello del consolato italiano, i vecchi ascari aspettano la piccola pensione che il nostro governo continua a mandare ogni tre mesi. Poche migliaia di lire, ma per molti di loro rappresenta l'unica fonte di reddito. Per ritirarle, gli ascari fanno due o tre giorni di viaggio su camion scassati che percorrono traballando, carichi fino all'inverosimile, le piste dell'interno. A qualcuno manca un braccio, altri zoppicano sulle stampelle: sono tutti molto vecchi, ma i loro ricordi non sono appannati dal tempo. Parlano del capitano Rossi o del maggiore Bianchi come se fossero ancora i loro superiori, rievocano le battaglie a cui hanno preso parte con dovizia di particolari. Parecchi portano appuntate sulle logore camicie medaglie consumate, mostrano fotografie ingiallite, parlano di fatti di quarant'anni fa come se il tempo non fosse mai passato. Durante la guerra delI'O¬ gaden hanno rivìssuto qualche momento dì gloria. I giornalisti stranieri andavano ad interrogarli per avere informazioni sulla natura del terreno, si facevano indicare sulle carte geografiche le piste nella pianura attorno a Giggiga, i canaloni attraverso i quali si sarebbe potuto aggirare il passo di Marda. La geografia non cambia, l'Ogaden è rimasto tale e quale dall'epoca in cui, lassù., combattevano gli italiani. E con gli italiani, loro, gli ascari. L'offensiva somala per conquistare la città di Harrar si è sviluppata secondo gli schemi di quella attuata quasi mezzo secolo fa dal maresciallo Graziani. Ma questa volta un certo generale sovietico Petrov, poco rispettoso della storia, ha trasportato con gli elicotteri carri armati e soldati alle spalle dello schieramento somalo ed in meno di dodici ore ha vinto la guerra. I vecchi ascari non sanno neppure che cosa sono gli elicotteri e con stizzosa baldanza assicurano che se ci fossero stati loro le cose sarebbero andate diversamente. La sconfitta delI'Ogaden pesa sull'avvenire della Somalia. L'economia è in sfacelo, il governo di Siad Barre, il «vecchio», ha perso molta della sua credibilità presso i somali. Barre è ancora il capo, ma non rappresenta più l'eroe di quel mito ideologico della grande Somalia che più dello stesso socialismo aveva tenuto insieme il Paese. Il sogno pansomalo (che comprendeva il territorio attuale, l'Ogaden, Gibuti e l'angolo nord-orientale del Kenia) è crollato ed il regime socialista sconta le conseguenze di quella disastrosa avventura militare. Il 9 aprile c'è stato un fallito golpe militare che si proponeva di cambiare il vertice del regime. I rivoltosi sono stati annientati dalle truppe lealiste, il loro capo, un vtcecomandante dei carristi di nome Iero (che significa «capelli bianchi») è scappato in Kenia. L'ordine è stato ristabilito in poche ore, soltanto poche migliaia di abitanti di Mogadiscio (che conta una popolazione di quasi un milione di persone) si sono accorte di quello che stava accadendo. Gli altri lo hanno saputo a cose fatte dalla radio, dalla voce del presidente che li esortava a restare uniti. Ma qualcosa è cambiato. Già riaffiora il tribalismo, il pericolo maggiore per l'unità nazionale. Il regime di Barre 10 ha sempre combattuto, ci sono pesanti condanne (fino a 15 anni di carcere) per chi osa nominare o appellarsi ad una delle decine di tribù che prima della rivoluzione formavano il tessuto del Paese. Ma adesso se ne parla. Nel malcontento per la sconfitta, i somali rimproverano al «vecchio» di aver assegnato ministeri ed incarichi governativi soltanto a parenti ed amici della sua «cabila» (tribù) senza tener in alcun conto i meriti dei candidati provenienti da altre «cabile». I «santoni», parecchi dei quali furono giustiziati all'indomani della rivoluzione, soffiano sul fuoco ed alimentano gli odi tribali trovando sempre più numerosi seguaci. Con la partenza dei russi, che in passato erano riusciti a tenerla a freno, è ricomparsa a Mogadiscio la piccola corruzione. Negli uffici governativi ed amministrativi non si ottiene nulla, 0 bisogna aspettare dei mesi, se non si ricorre al «bakshish». Il mercato nero è in pieno sviluppo: scarseggiano zucchero, farina, riso, cereali, ma chi ha denaro da spendere non ne avverte la mancanza. I trafficanti possono procurare qualsiasi cosa in breve tempo, purché si sia disposti a pagare. Il governo, inoltre, deve fare i conti anche con gli oltre 500 mila profughi delI'Ogaden che hanno bisogno di tutto: viveri, abiti, medicinali. Di questi rifugiati, almeno la metà vivono in campi di fortuna, la maggioranza sono donne e bambini, la mortalità infantile è in tragico aumento. Come se non bastasse, quest'anno il raccolto è minacciato dall'invasione delle cavallette, un flagello di dimensioni bibliche che si è abbattuto sui campi della Somalia settentrionale. Tuttavia a Mogadiscio la vita scorre tranquilla ed indolente, con quel dolce ritmo africano che ha sempre conquistato gli stranieri. Gli alberghi sono affollati di tecnici e operatori commerciali provenienti da mezza Europa. Predominano i tedeschi, che dopo il brillante esito dell'operazione per liberare l'aereo della Lufthansa, dirottato a Mogadiscio dai terroristi palestinesi nel novembre dell'anno scorso, godono di un indiscusso prestigio ed hanno un grosso debito di riconoscenza verso 11 governo somalo. Durante la guerra, erano arrivati a frotte anche i mercanti d'armi (fra i quali parecchi italiani) ed i mercenari. I primi offrivano armi dì ogni tipo, dai carri armati ai missili, dalle stazioni d'avvistamento radar ai fucili, i secondi vendevano la loro esperienza, maturata in anni di guerre nel Continente nero, al servizio del migliore offerente. Nell'albergo Al Uruba aveva installato il proprio ufficio un ex colonnello dell'aviazione tedesca del quale, per un impegno preso allora, non riveliamo il nome. Durante la seconda guerra mondiale aveva combattuto in Africa, al termine del conflitto non era rientrato in patria, per evitare guai ma, soprattutto, perché aveva capito che qui avrebbe potuto mettere a buon frutto la sua esperienza. Ha partecipato a tutte le battaglie e le rivoluzioni che ci sono state in Africa in trent'anni. All'epoca della guerra del Biafra, ha combattuto con i biafrani contro 1 nigeriani. Il suo aereo, un monoposto da turismo «attrezzato» per i combattimenti, costituiva da solo tutta l'aviazione biafrana. L'aveva battezzato «Baby Biafra» e per mesi aveva seminato il terrore fra le file dei nigeriani. Anni di guerre hanno lasciato il segno sul suo corpo: la mano sinistra maciullata, la gamba destra azzoppata, il torace attraversato da cordoni di cicatrici. Era venuto a Mogadiscio per offrire i suoi servigi: poteva disporre di una «équipe» di quindici o venti piloti (alcuni italiani), di quattro aerei da trasporto DC 6 (il vecchio Dakota), e di una decina di aerei da combattimento, residuati della seconda guerra mondiale. Il tutto per diecimila dollari al giorno. La fine improvvisa della guerra dopo il «blitz» russo-cubano in Ogaden ha mandato a monte le sue trattative ed il colonnello è ripartito, alla ricerca di altri clienti. Non era per nulla scoraggiato: se non è la Somalia, sarà il Mozambico, o l'Angola di Holden Roberto, aveva detto salutandomi. Passata la paura della guerra, la colonia italiana di Mogadiscio, poco meno di 500 persone, ha ripreso le vecchie abitudini. Molti vìvono in Somalia da più di quarant'anni e quasi non si ricordano dell'Italia. I loro figli sono nati qui, della patria lontana hanno un'immagine sfocata, non rispondente alla realtà. La maggior parte sono proprietari di bananeti nella provincia del Basso Scebeli, vivono nelle fattorie sprofondate nelle foreste lungo il corso dello Scebeli, vengono a Mogadiscio una volta alla settimana, il giovedì sera, vigilia della festa musulmana del venerdì. Punto di ritrovo obbligato la Casa d'Italia, dove si incontrano i connazionali che risiedono a Mogadiscio (quasi tutti commercianti), i tecnici che vengono a lavorare in Somalia con contratti biennali, i professori che insegnano all'università di Mogadiscio ed i «cooperanti», giovani insegnanti che collaborano con i colleghi somali nelle scuole tecniche. Parecchi italiani si sono sposati con donne somale: durante la colonizzazione venivano chiamati, con termine spregiativo, «insabbiati», oggi sono fra i più autorevoli rappresentanti della nostra comunità. I tempi sono cambiati ed i matrimoni misti non destano più scalpore e riprovazione: semmai adesso sono i somali che guardano con sospetto certe unioni, sempre timorosi che da parte dello straniero si celi qualche proposito poco chiaro. Sono anche, giustamente, gelosi delle loro donne, considerate a ragione le più belle dell'Africa. Alte, flessuose, con un portamento regale sottolineato dalle morbide pieghe della «futa», il tradizionale vestito somalo, quattro o sei yarde di morbida seta multicolore drappeggiata sul corpo, al tramonto le ragazze somale passeggiano a gruppi lungo via Somalia, la strada principale dì Mogadiscio, ed i loro occhi di velluto lanciano sguardi che fanno fremere lo straniero, rievocando immagini e sogni da «Mille ed una notte». Ma sono soltanto fantasticherie: la Somalia non è il paese di AU Babà, ma una nazione che lotta per affermarsi e ritrovare la propria unità. Francesco Fornari

Persone citate: Baby Biafra, Barre, Biafra, Graziani, Holden Roberto, Petrov, Siad Barre